Smart City: nel merito, nel metodo, negli obiettivi

Le trasformazioni urbane, da quelle puramente spaziali e/o tecnologiche, ai comportamenti, alle aspirazioni e al tessuto socioeconomico, rispondono a imprecisi bisogni. Sottolineo imprecisi perché esattamente di questo si tratta: buona parte dei difetti, previsti o meno in quanto tali, o addirittura dei rilevati impatti negativi, di queste trasformazioni, derivano dalla «imprecisione» della domanda, a cui per forza corrisponde una imprecisione dell’offerta, costretta ad arrampicarsi sugli specchi della congettura, a lanciare il cuore oltre l’ostacolo della conoscenza, sperando in bene. Non che questo sia negativo in sé e per sé,:sappiamo tutti quanto storicamente evoluzioni chiave della politica costume delle scienze delle tecniche si debbano a questi imprevisti effetti della risposta imprecisa a bisogni non precisati. Le evoluzioni dei trasporti e dell’urbanistica connessa (è sempre connessa, piaccia o meno a qualcuno) lo raccontano benissimo, così come pure quelle più recenti e un po’ meno seguite in quanto tali, della cosiddetta smaterializzazione, che dalle varie forme di telelavoro, al commercio online, hanno iniziato a delineare il tipo di relazioni che qualcuno frettolosamente etichetta smart city. Frettolosamente, perché in realtà si tratta di banali tasselli di qualcosa assai più complesso e assai diverso, di cui sinora abbiamo visto sostanzialmente poco.

La parte ha poco a che vedere col tutto

Certo, scoprire improvvisamente che si possono risolvere con un gesto semplicissimo problemi che si credevano insormontabili, o veder sorgere dal nulla iniziative prima inimmaginabili e che in un batter d’occhio diventano abitudine quotidiana, può davvero far pensare a una vera e propria rivoluzione smart indotta dalle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione. Ma, complice una forse esagerata centralità (per non dire monopolio) dell’approccio di impresa alla questione, che solo a valle e in modo abbastanza passivo in genere si trascina poi la politica e le amministrazioni locali, abbiamo finito per identificare con smart city una sommatoria di piccole e tutto sommato meccaniche innovazioni, certo utilissime, ma che forse sono il classico dito che nasconde la luna. Per fare un esempio piuttosto noto e macroscopico, è come se qualche nostro nonno, avesse pensato alla «rivoluzione automobilistica» in termini di calessi senza cavalli, con qualche bidone di benzina invece del fieno nei punti di posta, e un bel po’ di cacca per la strada in meno da spalare, e fastidiose mosche da scacciare. L’intuizione di Henry Ford e dei suoi colleghi, che quel calesse senza cavalli in realtà poteva diventare il centro di un nuovo universo (da scoprire e immaginare nei dettagli) sfuggiva del tutto, così come oggi ci sfuggono le vere potenzialità dei nuovi strumenti tecnologici. Che, esattamente come le automobili all’inizio del XX secolo ponevano l’esigenza di una nuova rete, stradale e non solo, oggi chiedono una infrastruttura portante che non esiste. Questo è il primo bisogno-contenitore, quello che servirà in seguito a rispondere ai nostri, nuovi e pregressi, bisogni.

Cosa vogliamo? È tutto ancora da capire

Nello stesso modo in cui un tablet può funzionare magnificamente come tagliere da cucina, ma è un po’ sprecato se lo si usa solo così, una tutta da definire smart city non sarà mai neppure lontanamente smart se non inizia a farsi un’idea sua della city su cui operare. Oggi spesso si parla di big data come infrastruttura virtuale, e dei nuovi metodi e strumenti che consentono finalmente di gestirli e sfruttarli in modo efficiente. Ma la domanda che occorre porsi da subito suona: il termine big significa solo grosse quantità di dato semplici e grezzi, o una potenzialmente infinita articolazione quanti-qualitativa, in grado di conoscere da altrettanto infinite prospettive la realtà? Ed è qui che entrano in campo rilevatori e sensori, ovvero tutto ciò che sinora solo episodicamente e settorialmente raccoglieva dati parziali, magari per immagazzinarli parallelamente ad altri ma in modo autonomo, creando banche incomunicanti. La città (spazio, ambiente, società, relazioni, decisioni, infrastrutture materiali e immateriali …) è il regno della complessità, e con la complessità va conosciuta e gestita, certo con la «imperfezione» della discrezionalità politica, ma sin quanto possibile in modo trasparente, accountable, informato, consapevole. Una rete di rilevatori, nata già in modo organico e comprensivo, dotata di tutti i caratteri più o meno riassunti sopra, può costituire la base infrastrutturale sia fisica che immateriale su cui iniziare a far «girare» una smart city degna di questo nome. Il progetto startup linkato può essere un accenno di metodo, da sviluppare.

Riferimenti:
Progetto Startup Array Of Things (AoT), Chicago

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