Spazio pubblico, spazio privato: questo è il problema!

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Foto M. B. Style

Ogni tanto sembra di non capirci più nulla, fra le contraddizioni incrociate di chi nelle cose urbane predica benissimo ma razzola pessimamente, a partire da quegli «amici dell’ambiente» assai poco propensi a guardare oltre il proprio naso. Escludiamo ovviamente da subito le persone che con la scusa di tornare alla natura paiono del tutto ignare di quel che è successo puntualmente a tutti i loro predecessori: più che tornati alla natura, sono «sovrapposti alla natura». Dai costruttori di poetiche casette in cima agli alberi, ai colonizzatori di cime di montagne svuotate per farci una post-grotta dotata di ogni comfort, ai più classici costruttori di casette di marzapane in mezzo alla radura con comodo parcheggio e bretella alla superstrada. Ecco, escludiamo preventivamente questi ambientalisti caricaturali, e circoscriviamo il campo a chi pare aver imboccato un percorso più sensato, i cosiddetti densificatori, ovvero chi sostiene che il futuro sta in ambienti urbani densi di persone, relazioni, attività, vitalità e opportunità. Tutto questo addensarsi però pare, come effetto immediato e automatico, escludere dall’ambiente urbano tante altre cose, che finiscono per riversarsi altrove, esattamente come gli ambientalisti impropri descritti prima. Perché se si densifica sul versante edilizio occupando più spazio si cancella verde strade e piazze, e se la risposta è quella tecnologica e verticale, così come in tanti schizzi porgetti e pure realizzazioni recenti, subito si levano giustificati sospetti di ordine sociale ed economico, più o meno riassunti dal termine gentrification. E ci risiamo con l’esportazione dei problemi all’esterno.

Equilibri di stili di vita

L’ex sindaco di New York Micheal Bloomberg alcuni anni fa inaugurava in pompa magna, insieme alla sua decantata responsabile delle trasformazioni urbanistiche Amanda Burden, il primo complesso di microappartamenti, dove a partire da superfici di 25-30 mq si provava a rispondere alla domanda di alloggi della locale creative class. Ma una scelta del genere, ovvero di ridurre moltissimo le superfici per ridurre i prezzi, pare davvero un modo ridicolo di affrontare la questione delle abitazioni nelle grandi città, in pratica seguendo un approccio meccanico simile a quello suggerito dall’economista neoliberale Edward Glaeser, che continua a ribadire ovunque la sua ricetta: più case realizzate, più basso il costo unitario, manco si trattasse di sassi e non di un bene così complesso e soggetto a infinite variabili. Da un certo punto di vista però, certamente assai poco sociale e politicamente di destra, quella dei microappartamenti non era un’intuizione del tutto sballata, e interpretava probabilmente il tema della densificazione nel modo più intelligente possibile. Perché riducendo il numero di metri quadrati pro capite (a quella dello spazio abitativo si deve sommare anche la riduzione di quello lavorativo, nella logica sia del telelavoro che del coworking) in pratica si opera una densificazione di persone, di relazioni, di vitalità, senza corrispondente consumo di spazio. Ma qui torniamo, come spesso avviene, alle distinzioni fra una città giusta e equa, e una solo competitiva e macchina per far soldi.

Sinistra e spazio pubblico

Perché come hanno capito benissimo per esempio anche gli imprenditori e gli acquirenti della fortunata formula cohousing, in sé e per sé ridurre gli spazi destinati ad alcune specifiche funzioni non significa affatto peggiorare la qualità, anzi a volte la riesce a migliorare di parecchio. Ma perché questo accada di devono parallelamente arricchire e migliorare le prestazionalità di altri spazi per altre funzioni. Nei complessi condominiali molto ricchi di spazi condivisi, ciò avviene nei luoghi di ritrovo, relax, socialità spicciola, o in alcuni veri e propri ambienti di servizio. Mentre se ci immaginiamo ad esempio l’idea di restrizione dello spazio abitativo classico (anche se non per tutti così tanto come nell’esempio di New York e in quello linkato qui) si tratta di rendere il quartiere e la città luoghi accoglienti al punto da consentire di svolgere in luoghi diversi dall’appartamento tantissime cose. Che vanno dal consumare i pasti, al fare il bucato, a lavorare, incontrarsi per motivi di affari, scrivere, studiare e tanto altro. Proiettate su un quartiere attività del genere richiedono una rete di spazi e contenitori molto elastici, disponibili, di alta qualità, a volte delegabili all’iniziativa privata, altre volte con un controllo o proprietà pubblica. In pratica una logica di space-sharing piuttosto allargata, che massimizzando l’uso di una risorsa preziosa ne consuma molto meno. Se non esistono queste precondizioni, qualsiasi retorica solo tecnica o organizzativa sul «vivere in poco spazio» risulta piuttosto stupida e sadica.

Riferimenti:
Scott Collie, Mini extends “creative use of space” principle to urban living, Gizmag, 14 aprile 2016

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