Stiamo perdendo terreno con la dispersione urbana? (2000)

Dispersione: di cosa si tratta?

Foto F. Bottini

Esistono parecchie definizioni di ciò che chiamiamo dispersione urbana o sprawl. Possono essere di tipo tecnico («insediamento residenziale con densità di otto alloggi all’ettaro o meno») (1) o più descrittive («insediamenti dispersi lungo le strade o in territorio rurale») (2). Alcuni Autori si spingono sino a dire che lo sprawl, così come l’arte o l’oscenità, dipende molto dalla prospettiva di osservazione, è impossibile da definire, salvo che lo si riconosce subito quando si vede. In generale, comunque, dispersione urbana sta per forte decentramento di persone abitazioni attività da nuclei centrali verso una regione esterna a trasformare vaste zone. Lo si calcola secondo i ritmi di urbanizzazione come per esempio ha fatto il Dipartimento dell’Agricoltura USA nel suo National Resource Inventory (NRI) del 1999 dove si stima come tra il 1992 e il 1997 si siano convertiti a usi residenziali o commerciali o produttivi oltre 6,5 milioni di ettari di superficie. Il che rappresenta il doppio della trasformazione urbana rispetto al decennio precedente (3).

La questione può anche essere considerata a scala più locale. Si ritiene che esista dispersione quando in una certa zona l’urbanizzazione cresce più della popolazione. Qualche esempio: dal 1970 al 1990, la popolazione nell’area metropolitana di New York è aumentata del 5%, mentre le superfici urbanizzate sono cresciute del 61%. Nel medesimo periodo a Chicago per un aumento del 4% di popolazione c’è stato un incremento del 46% nell’uso di territorio. A Cleveland, dove gli abitanti sono addirittura diminuiti dell’1% circa, è invece cresciuta del 33% la trasformazione urbana. Alcuni degli osservatori sottolineano come Phoenix, una delle città in crescita più rapida del paese, si stia allargando sul deserto a ritmi di un ettaro ogni due ore (c’è il detto: «l’unica cosa che può fermare Phoenix è Tucson») (4).

Qualunque sia la definizione precisa di sprawl, è sicuro che esista una crescente sensazione di disagio nel paese per quanto riguarda l’uso del territorio. Dalle elezioni nazionali o dai referendum locali (200 casi solo nel 1998 per una cifra complessiva di sette miliardi di dollari a tutela di spazi aperti), sembra emergere che gli americani sono sempre più interessati agli impatti della dispersione urbana. Scriveva il Christian Science Monitor nel dicembre 1999, the «… l’orientamento verso una espansione infinita potrebbe presto trasformarsi in un segnale di inversione di marcia: Senso Vietato Tornate Indietro. Sarà crescita sostenibile o nessuna crescita? La discussione è aperta».

I problemi della dispersione

Le questioni legate alla dispersione urbana sono cose ben note a chi ci vive quotidianamente. Anthony Downs della Brookings Institution le riassume in: «traffico congestionato, aria inquinata, cancellazione su larga scala di spazi aperti, grandi sprechi di energia … impossibilità di fornire adeguati servizi e infrastrutture all’urbanizzazione per ragioni di costi, indisponibilità di forza lavoro suburbana» (6). Downs individua anche una seconda serie di problemi legati allo sprawl, dagli elevati tassi di criminalità, alla bassa qualità delle scuole e di altri servizi caratteristica di quartieri degradati centrali ed espansioni di prima periferia: «Problemi che sorgono là dove si concentrano nuclei familiari a basso reddito, specie di minoranze povere».

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Questioni per nulla inedite e non limitate agli USA. In Cin a solo per fare un esempio dal 1950 al 1990 si sono urbanizzati per funzioni residenziali oltre 35 milioni di ettari. In America lo sprawl in qualche forma e misura rappresenta un problema collettivo sin dagli anni ’20 del secolo scorso almeno. Ma ciò che distingue la situazione attuale sono sia le quantità senza precedenti di superfici urbanizzate senza alcun piano generale, che la tendenza a decentrarsi sempre più lontano. Patricia Burgess della Cleveland State University, scrive che la dispersione urbana nelle forme di oggi, è determinata dalla pressione costante di chi si espande su zone sempre più vaste. «Abitanti e attività si spostano da un luogo all’altro, a scala regionale non c’è alcuno sviluppo, solo un movimento, le aree metropolitane si allargano senza crescere» (7).

Lo sprawl interessa zone dove prima non esisteva affatto. Lo riconosce un comunicato stampa della Vicepresidenza allegato allo studio National Resource Inventory. La conversione di territori a usi urbani, si afferma «non avviene più soprattutto attorno ai grandi nuclei metropolitani, ma interessa moltissime cittadine piccole e medie praticamente in ogni parte del paese» (8). Anche la Ford Foundation in un recente articolo sottolinea quanto gli effetti della dispersione non interessino solo le grandi città e le loro periferie: «Anche le espansioni consolidate subiscono l’effetto centrifugo di decenni di politiche pubbliche a favore della realizzazione di autostrade e nuove costruzioni, che spostano persone e attività sempre più lontano dai centri urbani» (9).

Secondo alcuni la dispersione non è un problema

Ma non tutti vedono lo sprawl in una luce negativa. «Ciò che qualcuno chiama dispersione per altri è il Sogno Americano» sostengono i favorevoli della crescita di libero mercato. Su Time, Richard LaCayo riassume tutta la questione: «Limitare la crescita vuol dire anche confrontarsi col conflitto tra ciò che è bene per l’individuo e ciò che lo è per la collettività. Secondo molti vivere bene vuol dire avere una grande casa con un grande giardino: perché qualcuno dovrebbe impedirmelo?» (10). Anche Downs, critico dello sprawl, riconosce che «la dispersione appare come un vantaggio a molti abitanti delle aree metropolitane tra cui le basse densità residenziali, la facilità di accedere agli spazi aperti, la varietà delle scelte disponibili di come e dove abitare, lavorare, facilità di spostamento, diritto a influire sulle scelte del governo locale».

Secondo alcuni non sarebbe affatto vero che questo modello di crescita americano abbia gli effetti negativi attribuiti dai critici. Commentando i tassi di sviluppo di Phoenix, Robert Franciosi del Goldwater Institute spiega ai suoi lettori come «Al ritmo di un ettaro ogni due ore circa, impiegheremo 340 anni a edificare tutta la superficie della Maricopa County». E prosegue commentando che «Nonostante tutte le preoccupazioni su questa crescita che distruggerebbe lla qualità della vita nella Valle, pare non ci sia proprio nessuna ragione per farsi prendere dal panico. Ci sono ancora tanti spazi aperti, e traffico e qualità dell’aria non sono affatto significativamente peggiorati» (11). Alcuni arrivano addirittura a rifiutare l’uso del termine sprawl, sostenendo che si tratta di una connotazione negativa per nulla adeguata a trasformazioni che invece rappresentano ricchezza e prosperità. Scrivendo su PERC Reports, periodico che sostiene un ambientalismo di libero mercato, Randall G. Holcombe dice che «Il termine spraw urbano suona minaccioso. Rafforza la sensazione che la crescita metropolitana sia di per sé qualcosa di brutto, inefficiente, causa di traffico e degrado ambientale» (12)

Opinioni divergenti

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Chi è convinto che la dispersione non costituisca affatto un problema pare particolarmente ostile a quella corrente di pensiero che si chiama Smart Growth. Così come accade con lo sprawl, anche la Smart Growth può assumere parecchi significati. I suo sostenitori – imprenditori, ambientalisti, associazioni, urbanisti, anche un candidato alla Presidenza USA – spiegano che si tratta di un insieme di politiche pubbliche in grado di consentire lo sviluppo economico e le trasformazioni urbane contenendone i danni ambientali e sociali da sprawl. I ricercatori del Northeast-Midwest Institute descrivono Smart Growth «una prospettiva secondo cui è possibile unire sviluppo metropolitano all’ambiente, all’economia e alla società» (13).Mentre altri Autori propendono per una immagine decisamente negativa della Smart Growth, come Wendell Cox, della Heritage Foundation e noto per essere contrario al trasporto pubblico, secondo cui «Smart Growth significa non crescere affatto». Cox si autodefinisce «non favorevole allo sprawl, ma per la libera scelta» (14).

Randal O’Toole, scrivendo sul numero di gennaio 1999 di REASON On-Line offre una critica della Smart Growth, sulla base della propria analisi della situazione di Portland Oregon, una città che pianifica il proprio sviluppo da 25 anni. Negando che una programmazione possa agire positivamente sullo sviluppo urbano, O’Toole individua invece una sorta di «alleanza degli urbanisti, ambientalisti, burocrati federali, politici urbani locali, interessi economici del centro, costruttori» che sfrutta una idea artificiale di sprawl per sostenere il proprio progetto di concentrazione (15). Mentre per chi alla Smart Growth è favorevole, questo attacco a Portland è solo opposizione pregiudiziale a un prototipo modello che andrebbe invece studiato ed emulato. Il deputato Earl Blumenauer (Democratico dell’Oregon) osserva: «Il fatto è che Portland prospera perché è molto abitabile. Le persone apprezzano una elevata qualità della vita là dove si tutelano zone agricole, naturali, boschi. E una crescita urbana come quella di Portland limitata dalle fasce di inedificabilità li protegge. … Non si tratta di ingegneria sociale, ma di dare possibilità di scelta alle persone. Non si è obbligati a consumare litri di benzina per andarsi a comprare un cartone di latte. Certo si può usare la macchina, ma anche spostarsi a piedi o in bicicletta» (16).

Considerando queste argomentazioni è difficile pensare a opinioni più radicalmente diverse su un argomento così tangibile come sarebbe, alla lettera, la situazione del nostro cortile di casa. E la risposta sta forse nel fatto che lo sprawl è impossibile da considerare fuori dalla propria esperienza personale. Per un abitante dell’Arizona, che si sveglia ogni mattina di fronte a un paesaggio vasto e a un orizzonte ininterrotto, è difficile pensare alla dispersione urbana come a un problema. Per chi invece abita sulla East Coast e subisce quei lunghi spostamenti pendolari dentro un traffico congestionato, guardare come gli edifici si divorano un ettaro dopo l’altro del poco spazio aperto ancora visibile, la dispersione un problema lo è di sicuro. Neppure pare possibile evitare una forte impronta ideologica: chi si oppone allo sviluppo sostenibile sostiene graniticamente i diritti proprietari individuali, le soluzioni di libero mercato a qualunque problema sociale. I paladini della Smart Growth, pur ideologicamente di provenienza variegata, tendono a credere tutti nell’uso di strumenti politico-sociali di guida del mercato.

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Per chi critica la Smart Growth, anche di fronte ad alcuni aspetti negativi dello sviluppo, si tratta comunque della libera scelta della maggioranza degli americani. La dispersione, si crede, è un prodotto conseguente dell’economia di mercato, e se esiste la necessità di adattamenti ci penserà il mercato stesso. «La cosa migliore per le grandi città – giudica O’Toole – è che si spopolino mentre la popolazione si sposta verso il suburbio. Diminuisce la densità, e anche i grandi centri così diventano più attrattivi per abitarci». Nel pensiero di Holcombe «la Mano Invisibile del Mercato guida gli operatori verso trasformazioni edilizie che col tempo diventeranno la forma più efficiente di uso del territorio». I sostenitori della crescita libera respingono qualunque ipotesi di interferenza con le forze del mercato, in alcuni casi sostenendo la privatizzazione delle strade e l’abolizione delle norme ambientali.

Ma chi è favorevole alla Smart Growth risponde che in realtà quei modi della crescita non sono mai stati determinati dal mercato. «In realtà – scrive Edward T. McMahon sul Planning Commissioners Journal – la dispersione deriva da parecchie scelte per orientarlo, quel libero mercato. Costruzione di strade, politiche dei mutui, sistemi assicurativi contro le calamità naturali, frammentazione delle imposte immobiliari, metodi di vendita e gestione degli interessi, tutto questo cambia le carte in tavola al mercato e sostiene lo sprawl» (17). Da un certo punto di vista, favorevoli e contrari alla Smart Growth ribaltano il proprio ruolo storico e le ideologie, in questo dibattito. I paladini di un maggiore interventismo sociale e politico, che un tempo si consideravano anche favorevoli a un governo centralizzato, oggi promuovono invece soluzioni locali differenziate. Mentre i contrari alla Smart Growth favoriscono una gamma assai più ristretta di varianti regionali e locali.

Il futuro

Anche indipendentemente dalla discussione accademica e politica, comunque la dispersione urbana è considerata un problema importante da moltissimi americani. Da Minneapolis a Austin, da Portland a Raleigh, sono centinaia le amministrazioni che hanno sperimentato metodi di unire sviluppo economico con un controllo sui fattori negativi della dispersione. Tra i più attivi spicca il governo statale del Maryland. Esperti di pianificazione territoriale stimano che ai ritmi attuali lo Stato userà per l’urbanizzazione nel prossimo quarto di secolo più superfici che in tutta la propria storia. E quindi non sorprende che il Governatore del Maryland, Parris Glendening, sia diventato un forte sostenitore della Smart Growth: «possiamo anche nascondere la testa sotto la sabbia e fingere che non stia accadendo nulla. Oppure semplicemente fingere che tutto questo crescere non ci danneggi, che non cambi il paesaggio, non inquini l’ambiente, non faccia crescere le tasse e non peggiori la qualità della vita. Ma potremmo anche cominciare a programmarla, questa crescita, nel modo migliore che ci riesce» (18).

Ed è la strada intrapresa dal Maryland coi suoi obiettivi di sviluppo statale:

  • «conservare le risorse naturali residue prima di perderle per sempre;
  • mantenere le forme attuali di città e quartieri indirizzando investimenti pubblici a sostegno di trasformazioni in aree già infrastrutturate o dove comunque i servizi sono già previsti;
  • risparmiare milioni di dollari al contribuente per pagare le strutture di sostegno alla dispersione urbana».

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Da un certo punto di vista questi obiettivi sono un ottimo sommario dei principi di crescita sostenibile: si riconosce lo sprawl come un problema ambientale dalle conseguenze potenzialmente irreversibili; si prova a impedire che la dispersione causi degrado sociale ed economico delle città e del territorio; si considerano i costi diretti e indotti del modello insediativo disperso, promuovendo l’uso e/o il ripristino di infrastrutture già esistenti. Gli strumenti e i programmi usati in Maryland e da altre amministrazioni favorevoli alla Smart Growth sono numerosi. Dagli strumenti fiscali ai margini urbani di edificazione, alla bonifica e riqualificazione di superfici urbanizzate, ad aree «no-growth» dove non si realizzeranno né strade né favoriranno edificazioni con investimenti statali.

Molto di tutto ciò suona vera e propria eresia a chi crede nelle filosofie del libero mercato e si oppone strenuamente alla Smart Growth, ma anche un baluardo del capitalismo come la Bank of America sembra aver cominciato a mettere in discussione l’attuale modello di sviluppo territoriale. «Siamo tutti favorevoli alla crescita» ha affermato l’amministratore delegato e presidente della Bank of America, Hugh J. McColl Jr., rivolgendosi l’anno scorso a una assemblea di costruttori. «Tutti dipendiamo dall’edilizia per sopravvivere, ma dipendiamo anche dalla sostenibilità urbana dei luoghi in cui sviluppiamo i nostri affari. Il nostro obiettivo non deve essere quello di limitare lo sviluppo ma indirizzarlo verso aree dotate di infrastrutture in grado di gestirlo sul lungo termine» (19).

Coerentemente a questa sensibilità, la Bank of America collabora con varie associazioni ambientaliste in California— lo Stato si colloca al sesto posto nella classifica National Resource Inventory per le superfici urbanizzate — alla redazione di una ricerca sugli effetti dello sprawl. Tra le varie osservazioni: «Le attività della California non possono affrontare la concorrenza globale gravate dai costi indotti dalla dispersione urbana, occorre trovare un nuovo modello di sviluppo. Individuare forme compatte ed efficienti per l’insediamento su cui organizzare la crescita, contribuendo al tempo stesso al mantenimento degli equilibri ambientali e della competitività economica. Dobbiamo far sì che tutti in California propongano e mettano in campo soluzioni al problema dello sprawl» (20).

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Per quanto benintenzionate possano essere queste proposte, dobbiamo comunque ricordare come storicamente ogni tentativo di arginare la dispersione – prima della città e poi del suburbio – non pare aver avuto incoraggianti successi. Né che ne abbiano quelli in corso oggi. «Pare ovvio che proseguire con una crescita a sprawl suburbano non risolverà nessuno dei più gravi problemi, anzi li aggraverà» scrive Downs. «E non pare nemmeno teoricamente o praticamente provato che le iniziative attuali di controllo avranno esiti diversi».

Patricia Burgess ha pubblicato di recente uno studio sulle azioni intraprese per contenere la dispersione urbana tra gli anni ’20 e i ’60 del secolo scorso. Individua le cause degli insuccessi in una serie di ragioni urbanistiche, sociali, di dimensione degli ambiti territoriali di intervento dei piani, sino al potere degli interessi particolari di mantenere lo status quo. Downs concorda sull’interesse delle forze di mercato a conservare il modello a sprawl. «Finché i sostenitori di un contenimento della dispersione urbana non riusciranno a imporre l’idea secondo cui i suoi costi sociali superano i vantaggi, ne saremo sempre dominati». Ma sia Downs che Burgess continuano a ritenere necessario e utile provare ad agire anche nella situazione attuale. Secondo Burgess, «oggi il problema è molto più grave – se pensiamo allo sprawl negli anni ’20 o nei ’60 – e maggiori le conseguenze negative potenziali, che interesseranno più persone in più (varietà di) luoghi».

Qualunque possa essere il giudizio su questi ragionamenti, o sulla gravità del problema dispersione, in molti casi lo si sta considerando come tale. A parte le questioni ideologiche queste esperienze sono terreno di verifica per alcuni concetti contrapposti. Il modo di affrontare lo sprawl offre una immagine del federalismo dispiegato al proprio meglio, coi territori che diventano «laboratori» per nuove strategie. A Portland, per esempio, una amministrazione regionale elettiva, Portland Metro, agisce come ente di pianificazione territoriale. Una dimensione di intervento invocata da molti, tra cui anche Burgess e Downs, ma che in passato ha avuto successo incerto. Secondo Blumenauer, «Il modello di Portland può non essere valido per altri casi. Ogni territorio dovrebbe elaborare una propria visione e gli strumenti per realizzarla». Visto il respiro e la varietà delle soluzioni proposte al problema dello sprawl, c’è sicuramente modo di giudicarle in una prospettiva non ideologica.

da: Know Your Environment, Academy of Natural Sciences, Philadelphia, febbraio 2000; titolo originale: Losing Ground? The Dimensions of Urban Sprawl – Traduzione di Fabrizio Bottini

Note Bibiografiche (i links sono ovviamente aggiornati solo al 2000)

  1. Office of Technology Assessment, 1996.The Technological Reshaping of Metropolitan America. Congress of the United States
  2. Vermont Forum on Sprawl.
  3. Natural Resources Conservation Service, 1999. 1997 National Resources Inventory United States Department of Agriculture/ Iowa State University Statistical Laboratory.
  4. Schmidt, C.W. The Specter of Sprawl. Environmental Health Perspectives Volume 106, Number 6, June 1998.
  5. Wood, D.B. «Backlash against urban sprawl broadens». Christian Science Monitor. December 19, 1999.
  6. Downs, Anthony, 1998. How America’s cities are growing. Brookings Review , Fall 1998. pp.9-12..
  7. Burgess, P. 1998. Revisiting “sprawl”: Lessons from the past. The Urban Center: Cleveland State University.
  8. Office of the Vice President, Dec. 6, 1999. Vice-President A! Gore Releases New Figures Showing Accelerated Loss of Farmland to Development. Press Release:The White House.
  9. Hackett, T. 1999. Risking the Future of Our Cities. Ford Foundation Report: Asset Building and Community Development. Fall 1999.
  10. Lacayo, R. 1999. «The Brawl Over Sprawl». Time (Time.com) March 22, 1999 Vol. 153 No. 11.
  11. Franciosi, R, 1998. A Tale of Two Cities: Phoenix, Portland, Growth and Growth Control. Arizona Issue Analysis 152, October 1998. The Goldwater Institute.
  12. Holcombe, R. 1999. In defense of urban sprawl. PERC Reports. Vol. 17. No. 1, pp. 3-5.
  13. Goode,E., E. Collaton, and C. Bartsch. 1999. Smart Growth. The Northeast-Midwest Institute.
  14. Cox, W. 1999. «A Straitjacket on Growth». Washington Times: Op-Ed: May 1, 1999.
  15. O’Toole, R. 1999. Dense Thinkers. Reason On-Line Jan. 1999. On-line: http://www.reasonmag.com/bisprawl.html
  16. Blumenauer, E. 1999. «In Defense of Portland». San Antonio Express-News, Op-Ed. March 14. 1999.
  17. McMahon, E.T. 1997. «Stopping sprawl by growing smarter». Planning Commissioners Journal Issue 26, p. 4. Spring 1997
  18. Glendening, P. , «Making Smart Growth Smarter.» Speech to Chesapeake Bay Foundation and 1000 Friends of Maryland, Oct. 8,1999.
  19. McColl, H. 1999. Remarks at the International Council of Shopping Centers 1999 Idea Exchange.
  20. Bank of America, California Resources Agency, Greenbelt Alliance. The Low Income Housing Fund. Beyond Sprawl: New patterns of growth to fit the new California.

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