Una cittadina di provincia (1871)

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Foto F. Bottini

Plassans è una sottoprefettura di circa diecimila anime. Edificata sull’altopiano che domina dall’alto la Viorne, addossata verso nord alle colline delle Garrigues che sono una delle ultime propaggini delle Alpi, la città si trova come in un fondo cieco. Nel 1851 essa comunicava coi paesi vicini mediante due sole strade: la strada di Nizza, che discende verso est, e la strada di Lione, che sale verso ovest; le due strade sono l’una la continuazione dell’altra, su due linee quasi parallele. Più tardi è stata costruita una ferrovia che passa a sud della città, in fondo al pendio che cala giù ripido dai vecchi bastioni fino al fiume. Oggi, quando si esce dalla stazione ferroviaria, situata sulla riva destra del piccolo torrente, si scorgono, alzando la testa, le prime case di Plassans, i cui giardini sono coltivati a terrazze. Bisogna salire per un buon quarto d’ora prima di raggiungere quelle case.

Una ventina d’anni fa, certamente per la scarsezza di vie di comunicazione, nessuna città aveva conservato meglio di Plassans il carattere bigotto e aristocratico delle vecchie città provenzali. Essa aveva, e del resto ha tuttora, un intero quartiere di grandi palazzi costruiti sotto Luigi XIV e Luigi XV, una dozzina di chiese, case di gesuiti e di cappuccini, un numero considerevole di conventi. Le distinzioni di classe sono rimaste a lungo segnate nettamente dalla divisione tra i quartieri. Plassans ne ha tre, che formano ciascuno come un rione a sé, completo, con le sue chiese, i suoi luoghi di passeggio; le sue usanze, i suoi orizzonti.

Il quartiere dei nobili, che viene chiamato quartiere di San Marco dal nome di una delle parrocchie ivi frequentate, è una piccola Versailles dalle strade diritte, erbose; le sue ampie dimore quadrate nascondono dentro di sé grandi giardini. Il quartiere si estende a sud, sul margine dell’altopiano; certi palazzi, costruiti proprio sull’orlo del pendio, hanno, uno sotto l’altro, due piani di terrazze, da cui lo sguardo spazia su tutta la valle della Viorne: mirabile punto panoramico, molto vantato dagli abitanti. Il quartiere vecchio, la città antica, snoda verso nord-ovest le sue straducole strette e tortuose, fiancheggiate da povere case fatiscenti; là si trovano il municipio, il tribunale civile, il mercato, la gendarmeria; questa parte di Plassans, la più popolata, è abitata dagli operai, dai commercianti, da tutto il popolo minuto affaccendato e miserabile. La città nuova, infine, forma una sorta di rettangolo, a nord-est; i borghesi, quelli che hanno accumulato, a soldo a soldo, una fortuna, e quelli che esercitano una professione liberale, vi occupano case ben allineate, ricoperte d’un intonaco giallo chiaro. Questo quartiere, che ha l’onore di ospitare la sottoprefettura, un brutto edificio di pietra gessosa ornato da rosoni, nel 1851 era formato da cinque o sei strade appena; è di creazione recente, e, soprattutto da quando è stata costruita la ferrovia, è l’unico che tende a ingrandirsi.

Ciò che, ai nostri giorni, divide ancora Plassans in tre parti indipendenti e distinte è il fatto che i quartieri sono delimitati da grandi strade. Il corso Sauvaire e la rue de Rome, la quale è come il prolungamento strozzato del primo, vanno da ovest ad est, dalla Porta Grande alla Porta di Roma, tagliando così la città in due parti, separando il quartiere dei nobili dai due altri. Questi, a loro volta, sono divisi l’uno dall’altro dalla rue de la Banne; questa strada, la più bella della città, incomincia all’estremità del corso Sauvaire e sale verso nord, lasciando a sinistra le masse nere del vecchio quartiere, a destra le case giallo chiaro della parte nuova. Là, verso la metà della strada, in fondo a una piazzetta circondata da alberi stentati, si erge la sottoprefettura, il monumento di cui i borghesi di Plassans sono molto orgogliosi.

Quasi per isolarsi ulteriormente e per meglio chiudersi dentro di se, la città è circondata da una cerchia di vecchi bastioni, i quali, oggi, non servono ad altro che a renderla più scura e più stretta. Basterebbero delle fucilate per demolire queste fortificazioni ridicole, corrose dall’edera e fiancheggiate da violacciocche selvatiche, e uguali, per altezza e spessore, tutt’al più alle mura d’un convento. I bastioni sono interrotti da parecchi varchi; i due principali, la Porta di Roma e la Porta Grande, si aprono l’uno sulla strada di Nizza, l’altro sulla strada di Lione, all’altro estremo della città. Fino al 1853 questi varchi sono rimasti muniti di enormi portali di legno a due battenti, centinati nelle parti superiori e rafforzati da sbarre di ferro. Alle undici di sera d’estate, alle dieci d’inverno, si chiudevano queste porte a doppia mandata., Così la città, dopo aver tirato i catenacci come una ragazza timorata, dormiva sonni tranquilli. Un guardiano, che abitava in una loggetta situata in uno degli angoli interni di ciascun portale, era incaricato di aprire ai ritardatari. Ma bisognava parlamentare a lungo. Il guardiano faceva entrare le persone soltanto dopo aver illuminato con la lanterna e avere esaminato attentamente il loro viso attraverso uno spioncino; bastava che il guardiano rimanesse poco convinto, e si era costretti a dormir fuori. Tutto lo spirito della città, fatto di vigliaccheria, di egoismo, di abitudinarietà, di odio verso tutto il “di fuori” e di desiderio bigotto di una vita claustrale,era simboleggiato da quei giri di chiave dati alle porte ogni sera. Plassans, quando si era bene inchiavardata, diceva a sé stessa: “Sono in casa mia”, con la soddisfazione di un pio borghese che, libero da timori per la sua cassaforte, sicuro di non essere ridestato da alcun subbuglio, si accinge a recitare le preghiere e ad andare, tutto contento, a letto. Non c’è nessuna città, credo, che si sia ostinata fino a tempi così recenti a rinserrarsi come una suora di clausura.

La popolazione di Plassans si divide in tre gruppi: quanti sono i quartieri, altrettanti i piccoli mondi a sé stanti. Bisogna considerare estranei a questi raggruppamenti i funzionari: il sottoprefetto, il ricevitore particolare, il conservatore delle ipoteche, il direttore delle Poste, tutte persone venute dal di fuori, poco amate e molto invidiate, che vivono a modo loro. I veri abitanti, quelli che sono nati là e che sono fermamente decisi a morirvi, rispettano troppo le tradizioni e le demarcazioni ormai canoniche per non rinchiudersi spontaneamente in uno dei tre gruppi sociali della città.

I nobili vivono ermeticamente chiusi. Dopo la caduta di Carlo X, essi escono raramente di casa, si affrettano a rientrare nei loro palazzi silenziosi, camminando furtivamente, come se si trovassero in terra nemica. Non vanno da nessuno, e non si ricevono neanche tra di loro. Nei loro salotti gli unici frequentatori abituali sono alcuni preti. D’estate risiedono nei castelli che posseggono nei dintorni; d’inverno rimangono seduti dinanzi al focolare. Sono dei morti che si annoiano di esser vivi. Il loro quartiere, perciò, ha la calma greve d’un cimitero. Porte e finestre sono accuratamente sbarrate; par di vedere una fila di monasteri chiusi a tutti i rumori esterni. Di tanto in tanto, si vede passare un prete la cui andatura cauta aggiunge un silenzio in più, lungo le case tutte chiuse, e che scompare come un’ombra in una porta semiaperta.

La borghesia, i commercianti che si sono ritirati dagli affari, gli avvocati, i notai, tutto il piccolo mondo benestante e ambizioso che popola la città nuova, cerca di dare a Plassans un po’ di vita. Quei signori vanno ai ricevimenti del sottoprefetto e sognano di poter dare a loro volta dei ricevimenti analoghi. Si danno le arie di amici del popolo, chiamano un operaio “bravo il mio …”, parlano del raccolto coi contadini, leggono i giornali, vanno a passeggio la domenica con le loro signore. Sono i progressisti di laggiù, i soli che si permettono di ridere parlando dei bastioni; hanno perfino, più volte, sollecitato “gli addetti ai lavori pubblici” a demolire quelle vecchie muraglie, “relitti di un’altra epoca”. Tuttavia, anche i più spregiudicati hanno un forte sussulto di gioia ogni volta che un marchese o un conte si degna di onorarli d’un piccolo saluto. Il sogno di ogni borghese della città nuova è di essere ammesso in un salotto del quartiere di San Marco. Sanno bene che un tale sogno è irrealizzabile, ed è questo che li fa proclamare a gran voce che sono dei liberi pensatori: liberi pensatori a parole, amicissimi delle autorità, pronti a gettarsi, al minimo segno di sommossa popolare, nelle braccia del primo venuto che si presenta come loro salvatore.

Il gruppo che lavora e vegeta nel quartiere vecchio non ha una fisionomia altrettanto uniforme. Il popolo, gli operai, costituiscono la maggioranza; ma vi sono anche i commercianti al minuto e perfino qualche grossista. In verità, Plassans è tutt’altro che un centro commerciale; vi si traffica appena quanto basta per smaltire i prodotti della zona: olio, vino, mandorle. Quanto all’industria, è rappresentata soltanto da tre o quattro concerie che appestano una delle strade del quartiere vecchio, da alcune manifatture di cappelli di feltro e da una fabbrica di saponi relegata in un angolo del sobborgo. Questo piccolo mondo commerciale e industriale frequenta, in certe occasioni eccezionali, i borghesi della città nuova; ma vive soprattutto in mezzo ai lavoratori della città vecchia. Commercianti, piccoli bottegai, operai hanno interessi comuni che li uniscono come in una sola famiglia. Solo la domenica i padroni si lavano le mani e formano un gruppo a sé. D’altronde gli operai, che ammontano appena a un quinto del totale, si perdono nella massa degli oziosi del luogo.

Una sola volta alla settimana, nella buona stagione, i tre quartieri di Plassans si incontrano faccia a faccia. Tutta la città: si riversa nel corso Sauvaire, la domenica, dopo i vespri; si azzardano a recarvisi perfino i nobili. Ma in questa specie di viale fiancheggiato da due filari di platani si formano tre correnti di persone ben distinte le une dalle altre. I borghesi della città nuova vi passano soltanto: escono dalla Porta Grande e imboccano, a destra, il viale del Mail, lungo il quale vanno e vengono, fino al cader della notte. Nel frattempo, la nobiltà e il popolo si dividono il corso Sauvaire. Da oltre un secolo la nobiltà ha scelto il fianco del viale che si trova a sud, costeggiato da una fila di grandi palazzi, abbandonato per primo dalla luce del sole; il popolo ha dovuto accontentarsi dell’altro fianco, quello a nord, dove si trovano i caffè, alcune case, le rivendite di tabacchi. Per tutto il pomeriggio, popolo e nobiltà passeggiano su e giù per il corso, senza che mai ad un operaio o ad un nobile venga in mente di cambiar parte. Uno spazio tra i sei e gli otto metri li separa, eppure è come se la distanza fosse di mille leghe: gli uni e gli altri seguono scrupolosamente due linee parallele, quasi che non dovessero mai incontrarsi in questo basso mondo. Perfino in epoche rivoluzionarie ciascuno ha percorso il fianco del viale a lui destinato. Questa passeggiata domenicale ligia a norme fisse e i giri di chiave dati alle porte della città la sera sono fenomeni analoghi, che bastano per giudicare i diecimila abitanti di Plassans.

Da: La fortune des Rougon, 1871; ed. it. La fortuna dei Rougon (cap. II), Garzanti 1992, pp. 40-45

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