Ventimila Leghe Sotto la Padania

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Foto F. Bottini

Ottant’anni fa, quando dalle nostre parti c’erano “sommergibili rapidi ed invisibili”, il sociologo di Chicago Roderick McKenzie studiava qualcosa di altrettanto sommerso e invisibile: la comunità metropolitana. Una comunità ben diversa da quella tradizionale del vicolo, della piazza, del quartiere, e che si riconosceva e articolava su punti di vista e strumenti più complessi: mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione, tempi e spazi elastici. Era insomma un primo vagito di adattamento umano ai tempi della macchina e della modernità, oltre gli slanci elitari delle avanguardie di inizio secolo, per una convivenza più pacioccona (ma non per questo retrograda e reazionaria) col nuovo contraddittorio universo costruito dalla tecnologia.

Proprio questa nozione di comunità metropolitana mi è tornata in mente seguendo da vicino e da lontano la “navigazione” in questo agosto 2005 del sommergibile Enrico Toti: dal porto di Cremona al Museo della Scienza di Milano, ma soprattutto da piccola nota di cronaca a spettacolo nazionalpopolare seguito minuto per minuto dalla stampa. Si scrisse e commento’ molto, sulle migliaia di persone che durante le trasferte notturne o le soste diurne si affollavano attorno al gigante nero che con dannunziana orgogliosa sicurezza risaliva la valle padana verso l’ultima dimora. Forse qualcosa di più si poteva dire sugli spazi di questa nuova e inattesa socialità, e sulla ricerca di nuovi rapporti con questi spazi.
Non a caso il corteo inizialmente tecnico-militarizzato si era rapidamente evoluto in una versione tascabile del Giro d’Italia, con un particolarissimo ruolo delle “tappe”. Qui si registrava uno degli aspetti più interessanti della nuova comunità mediatico-territoriale: la scoperta e tentativo di appropriazione dei nuovi spazi di solito preclusi all’incontro, alla vera frequentazione, alla socialità corrente, e lasciati a poche avanguardie specializzate.

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Foto F. Bottini

Avanguardie specializzate che difficilmente pensiamo come tali, sempre che ci pensiamo, ma che da veri impavidi pionieri iniziano la colonizzazione dei nuovi territori, un po’ come i gabbiani sulle isole sputate in superficie da un vulcano sottomarino: camionisti, puttane, pensionati con la passione dell’orto, qualche operaio delle manutenzioni, e pochi altri. Sono loro ad esplorare per primi l’immensa città proibita che si stende sulle grandi distanze fra un bozzolo privatizzato e l’altro, fatta di piazzole, cigli stradali, guard-rail, macchie di alberi, parcheggi, scarpate sul retro degli scatoloni precompressi artigianali e commerciali. Spazi preclusi ai comuni mortali, intravisti malamente anche da chi dovrebbe “progettarli”, e invece quasi sempre si limita ad applicare norme e regole in modo astratto. Spazi accettati e subiti soprattutto perché ignorati.

Chi ha mai fatto davvero caso a quanto sono inutilmente orribili, scomodi, alieni, questi spazi? Mercato, burocrazia, “tecniche” campate per aria organizzano localizzazioni, densità, arretramenti, miscele funzionali e rapporti con la strada, di questi sparpagliati baracconi, già settant’anni fa temuti come la peste (si veda ad esempio il dibattito sul britannico Restriction of Ribbon Development Act, 1935). E pure tranquillamente realizzati, che anche ora continuano a crescere come funghi, anche lungo quel percorso sub-padano del sommergibile Toti. Chissà se qualcuno dei neo appassionati di navigazione  su ruote se n’è mai accorto, di quanto un’idea del tutto scema di ruote, mobilità, nodi e tratte, abbia finito per mortificare anche il “cuore verde della Megalopoli” (come lo chiama il geografo Turri).
Eppure anche in mezzo al guazzabuglio malpensato per automobili e umani, si erano affollate migliaia di persone, magari inciampando su cordoli superflui che però si studiano nei corsi tecnici, smadonnando per l’ombra che mancava, dagli standard e dai piazzali pieni di buche, per le piazzole di sosta assenti sul ciglio di decine di chilometri di statale, perché tanto prima o poi ci facciamo l’autostrada, a che serve migliorare il tracciato “vecchio”?

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Foto F. Bottini

Speriamo, appunto, che qualcuno se ne sia accorto. Magari qualcuno che poi partecipi alle decisioni. Magari qualcuno poco propenso a ridurre il tutto a una versione all’amatriciana del new urbanism, con una bella siepe davanti ai capannoni, rotatorie con verde sponsorizzato … e chilometri di barriere tipo “ new jersey” a tagliare fuori completamente l’ambito stradale dal territorio, e viceversa. Allora sì, che la mobilità diventerebbe davvero e per sempre una navigazione sottomarina, una Lega dopo l’altra, e il territorio una chimera, plasmabile a piacimento dagli schermi televisivi.
Per ora, ringraziamo anche il sommergibile Toti per averci riportati coi piedi per terra, dieci anni fa. Da allora, sono successe solo cose stupide.

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