Agli antipodi della dispersione urbana

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Foto J. B. Hunter

Diciamocela tutta: non se ne può più degli strenui difensori della campagna, soprattutto quando difendono all’arma bianca qualunque cosa, usando quel nome «campagna» a sproposito, che più sproposito non si può. Già: che diavolo sarebbe la campagna? Ripartiamo dai fondamentali, anche senza scivolare subito dentro la Bibbia, i Sumeri o i solchi bagnati di sudore della gleba: dicesi campagna un posto dove statisticamente la soverchiante maggioranza della popolazione trae il proprio sostentamento dalla terra; e dicesi città la sua versione speculare, dove essendo questa terra assai farcita di pietrame, ricoperta, spezzettata, ci si è specializzati in altri settori della vita. Punto. Ergo, ovviamente schematizzando ma mica troppo, quando vedete un tizio col trattore che va e viene tra due file di edifici non state guardando un contadino, ma un impiegato del terziario agricolo metropolitano col cappello di paglia al lavoro nel suo particolare open space, per così dire. Non che per questo la superficie a verde non debba essere valutata valorizzata e tutelata in quanto tale, per carità, ma considerata nel contesto urbano a cui afferisce: dal punto di vista ambientale, urbanistico, sociale ed economico. La campagna, quella da trattare come tale in ogni senso, sta altrove, e la si tutela in un modo solo: lasciandola allo stato di campagna, ed eventualmente scrollandole di dosso eventuali incrostazioni urbano-industriali sopraggiunte.

Densificazione e declinazione

Girava tempo fa in una rivista «scientifica» (al cui Comitato sarebbe utile dare un’occhiata a certi contributi) la proposta di destinare una piccola azienda agricola metropolitana alla produzione di biocarburanti. Ecco un esempio, dalla parte della finta campagna, di totale confusione dei termini: in un contesto del genere, l’ecodiesel a km0 non servirebbe neppure decentemente a far funzionare i trattori per coltivarlo, anche senza entrare nella grande questione globale dei biocarburanti. Incongruenza abbastanza evidente, che dalla parte della città significa però accettarla come tale, e sulla base di certi criteri sia sociali che ambientali trattarla, come tale, luogo dell’artificio dove anche gli elementi naturali quando entrano fanno parte del tutto con ruolo coerente: artificiale, diciamo, o pianificato, per usare un’altra parola. Solo con tutte queste premesse inizia ad assumere senso un termine di per sé ambiguo, e tutt’altro che neutro se ne pensiamo le interpretazioni correnti, ovvero la cosiddetta densificazione. Che quando sbilanciata in esclusiva sul versante edilizio, di aumento delle cubature e della popolazione insediata (o dei posti di lavoro teorici in caso di attività economiche) non solo si presta alle peggiori speculazioni, ma evoca negli osservatori quella repulsione da «alveare disumano» che poi porta all’idealizzazione della campagna finta di cui sopra, di fatto chiudendo il cerchio invece di spezzarlo. C’è un’uscita dal labirinto concettuale?

Per la campagna, chiedete a chi ne ha tanta

Gli immobiliaristi usano malissimo la dizione mixed-use, derivandola magari inconsapevolmente da quella rozza interpretazione americana nata per cercare di uscire dalla monofunzionalità micidiale del loro zoning. Così un po’ ci si è anche abituati a diffidare del termine, che invece come ben sanno molti studiosi andrebbe interpretato in senso lato, come radice di urbanità: la mescolanza deve quasi ovviamente comprendere quindi attività, fasce sociali, tipologie spaziali, ambienti, e mescolare il tutto secondo prospettive nuove, senza cascare nella cartolina standardizzata: vuoi del centro storico, vuoi di altri luoghi urbani appartenenti al passato. La cosa difficile però è unire seriamente mixed-use allargato da un lato, e densificazione dall’altro, quando l’obiettivo (come quasi sempre) è ribadire un serio dualismo fra città e campagna, ovvero trasformare dove di deve trasformare, e tutelare dove merita davvero di essere tutelato. Per capire il senso di questa difficoltà, si pensi a quei contesti dove pur in presenza di apparentemente sterminati spazi aperti, si è colto il problema centrale della confusione: la campagna magari resta anche campagna, ma si allontana sempre più dalla città, mentre quest’ultima si suburbanizza all’infinito. Risultato possibile, l’abolizione di entrambe sotto uno strato di marmellata sprawl. Da qui, l’esperimento assai graduale della «intensificazione», coi suoi ostacoli sociali, di immaginario, di stili di vita, di consenso. Che però meritano la massima attenzione e rispetto, se non altro perché paiono assai consapevoli della posta in gioco. Anche agli antipodi non ci sono affatto questioni antipodali, anzi!

Riferimenti:

City of Wellington (NZ), Infill Housing Policy (anche materiali scaricabili)

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