Quando gli uomini facevano le città, e le città facevano gli uomini

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Immagine: Wacker’s Manual of The Plan Of Chicago, 1911

C’era una volta una grande città, la quale naturalmente non era stata sempre così, anzi fino a non molto tempo prima era un minuscolo villaggio, ma poi. Ma poi quel villaggio si trovava in una posizione straordinaria per fare quel che hanno sempre fatto le città: intrecciare le cose, far incontrare le persone, far convergere i flussi. Uno dei flussi principali che arrivavano a gonfiare il villaggio non era affatto umano, erano le mandrie di bestiame allevate negli sterminati territori dell’Ovest, e portati avventurosamente verso quel posto sulle sponde di un lago, dove si sarebbero vendute al prezzo migliore. Con tante bestie a disposizione, non ci voleva molto perché a qualcuno venisse in mente l’idea di aggiungerci il valore del lavoro umano e dell’organizzazione: dall’originario rudimentale foro boario, attraverso i mattatoi, fino alle fabbriche di carne in scatola e salsicce, pronte a invadere i mercati del mondo. E per trasportare sia le mandrie vive in città, sia le mandrie macellate e inscatolate fuori città, era arrivato il treno, anche lui cresciuto a dismisura, dalla prima modesta testa di binari, a una città della meccanica ferroviaria che produceva intere linee, locomotive, vagoni merci e per passeggeri di lusso. Tutto questo, e molto altro, moltiplicava gli abitanti e l’estensione del villaggio originario per dieci, cento, mille volte.

Prima stazione

La grande città cresciuta tumultuosamente e disordinatamente sull’arco di un paio di generazioni, doveva però pagare caro il prezzo di tutta questa attività frenetica senza troppo pensare ai dettagli: un enorme incendio se ne portò via interi quartieri in un paio di giorni, lasciando solo ceneri fumanti e famiglie disperate. C’era però sempre quella grande vitalità pronta a ripartire daccapo, e come scrisse un po’ vantandosi un quotidiano locale: «mentre ancora bruciano gli ultimi tizzoni, fa il suo ingresso in città il primo carico di legname per la ricostruzione». Fortunatamente oltre ad agire fulmineamente, qualcuno badava anche a pensare: quei «carichi di legname» della ricostruzione rischiavano di alimentare di lì a poco il prossimo altro devastante incendio, se non si cominciava a riflettere su una idea diversa di sviluppo urbano. La tradizione locale voleva che quel posto fosse chiamato «città giardino» come recitava lo stemma comunale del villaggio appena cresciuto, e gli architetti iniziarono, da un lato a sperimentare nuovi materiali e tecniche costruttive moderne, dall’acciaio al cemento armato, dall’altro a concepire quartieri che in quei giardini ci si calavano dentro a pennello, seguendo le linee curve delle alture e dei corsi d’acqua anziché i rettifili e gli angoli retti dell’ingegneria di origine ferroviaria. Fu sperimentato anche in grande stile un sistema coordinato di collaborazione fra tutti gli architetti, i costruttori, gli imprenditori della città, per realizzare un quartiere fieristico destinato al debutto mondiale dei prodotti e della cultura locale. Grande successo di pubblico e di critica, tutto il mondo veniva ad ammirare la ricchezza dell’antico villaggio così cresciuto. Ma poteva continuare così? Certamente no.

Seconda stazione

Gli stessi architetti, costruttori e imprenditori che avevano collaborato per il quartiere fieristico, si impegnarono allora in qualcosa di molto più complesso: pensare per l’intera grande città, del presente, del futuro, e del futuro remoto, usando lo stesso metodo della collaborazione, senza rinunciare allo spirito creativo individualista che aveva alimentato tutto sin dalle origini. Si riunirono in un Comitato, e col coordinamento di un piccolo gruppo fu redatto un gigantesco progetto, che delineava secondo tratti generali la città futura, così come la si poteva vagamente immaginare. La ricchezza per costruirla c’era, i presupposti erano ottimi, ma c’era un dubbio: i cittadini potevano certamente consultarsi tra loro all’infinito, prendere le decisioni più condivise del mondo, ma qualcuno finiva per restare escluso. Chi? Forse i più poveri, forse i più deboli, forse i meno acculturati? No, per quelli una soluzione in fondo era sempre possibile. Ce ne erano degli altri quasi automaticamente esclusi, ed erano in non ancora nati, o chi era decisamente ancora troppo piccolo per concepire cose come un grande progetto di crescita urbana, complicatissimo nelle forme e negli interessi che coinvolgeva. Ma un signore molto attivo nel Comitato ebbe un’idea semplice, che come tutte le idee semplici doveva rivelarsi geniale: perché non rendiamo di fatto eterno il nostro progetto almeno nel metodo, introducendolo nelle materie obbligatorie che si studiano a scuola? E fece anche di più: commissionò a degli specialisti la redazione di un libro di testo per le scuole, coi suoi capitoli, le illustrazioni, le letture e gli esercizi da fare a casa. Insomma le future generazioni non avrebbero scimmiottato il grande progetto, né l’avrebbero trattato come un oggetto di culto da venerare senza capirlo, ma studiandone il metodo e gli obiettivi, capendolo insomma nel profondo, avrebbero potuto aggiornarlo da cittadini consapevoli, e farlo crescere insieme alla città. Era nata la partecipazione urbanistica. Poi venne la grande guerra mondiale e tante cose cambiarono, ma questa è un’altra storia.

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