Com’è poetica Venezia dai finestrini di un Suv

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Foto M. B. Fashion

Con le infinite polemiche sollevate ogni giorno dal ruolo dell’automobile nella nostra vita, nello spreco di energie e risorse petrolifere, nel condizionare piccole e grandi scelte, spesso finiscono per sfuggirci piccoli segnali della spirale infinita dentro cui siamo finiti, e che certamente non si risolverà (anzi forse peggiorerà pure) con quei trabiccoli tecnologici e organizzativi del car-sharing, dell’auto elettrica, della guida senza pilota di cui ogni tanto i laboratori Google annunciano clamorosi avanzamenti. Perché anche sommando, mescolando, reinventando da cima a fondo il concetto di automobile, spesso non mettiamo nel dovuto conto la vera e propria mutazione mentale che il secolo dell’automobilismo ha indotto nel nostro modo (anche istituzionale) di guardare le cose. Uno dei piccoli segnali della spirale infinita, è un trafiletto di cronaca piuttosto folkloristico riguardante Venezia, e anche lì rapidamente liquidato a fronte di altri problemi soverchianti, dal Mose, alle acque alte, all’invasione di quelle navi spaziali da crociera. La piccola invasione passata quasi inosservata ma potenzialmente illuminante era un’altra.

Accade, che un gruppo di ragazzi alzato troppo il gomito nella classica deriva da fine settimana, e ne combina un’altra, diciamo pure una specie di variante creativa di quei sogni in cui ci si aggira in mutande per il Vaticano, oppure si fa sesso selvaggio prima di accorgersi di stare perfettamente in vista su un palco. L’ambiente è quello noto a tanti turisti e pendolari che hanno frequentato o frequentano la città lagunare: il terminale automobilistico di Piazzale Roma, testa di ponte del trasporto su gomma e interfaccia con quello su battelli, oggi anche lui oggetto di polemiche, dal nuovo albergo che non piace ai conservazionisti, al discusso ponte di Calatrava che scavalca le ultime propaggini del Canal Grande. Immaginiamoci la notte veneziana, il gruppo di ragazzi brilli arrivati dalla terraferma in macchina chissà perché fin lì, e nei pertugi fra un edificio e l’altro della cortina che separa l’asfalto dall’acqua, appare in piena vista la salita del ponte. Molto in breve, e in sequenza, ci sono quella rampa, ripida ma non troppo, pensata dall’ingegnere archistar, poi scendendo dall’altra parte il lastricato abbastanza liscio della spianata davanti alla Stazione con le fermate dei vaporetti, più in là ancora la strettoia di Lista di Spagna, infine il cul-de-sac di campo San Geremia, bello grande e così simile a tante piazze italiane da centro storico. E tra i fumi dell’alcol al volante la pensata, già: perché non farsi un bel giretto?

Fra le varie sensazioni che forse sotto sotto condividiamo in molti, delle stranianti esperienze spaziali veneziane, c’è la nostra innegabile, quasi istintiva preferenza di primo acchito per un certo genere di ambienti urbani rispetto ad altri, diciamo quelli che oltre la curiosità da turista ci fanno sentire chissà perché un po’ più a casa. Posti tutto sommato abbastanza diversi, sparsi per la città ma concentrati sul versante dell’interfaccia trasportistico con la terraferma, che condividono urbanisticamente qualcosa di preciso: il tocco (di solito ottocentesco o novecentesco) di qualche progettista qui ha forse inconsapevolmente appiattito gli spazi, peculiarmente veneziani, su uno standard genericamente urbano, magari certo adattandolo nei particolari, nei materiali, nelle soluzioni di continuità architettoniche al contesto tradizionale. Insomma esistono luoghi per nulla piccoli in cui risulta da un lato abbastanza ovvio il fatto di trovarsi a Venezia, ma sottilmente si evocano comportamenti e aspettative per nulla dissimili da quelle di qualunque altra via o piazza o ambito pubblico. Chiaro il concetto di fondo?

Allora c’è la grande area, che per chi ha appena attraversato la laguna venendo dalla terraferma rappresenta il passaggio dal resto del mondo a Venezia. Il terminal automobilistico Tronchetto-Piazzale Roma, quello ferroviario di Santa Lucia e spazi circostanti. Qui siamo solidamente ancora col cervello su ruote, ma poi per esempio sull’asse turistico verso Rialto, c’è una striscia irregolare percorsa dalle grandi folle, che arriva omogenea almeno sino alla barriera del Canale di Cannaregio, qualche centinaio di metri di quasi rettilineo, che per la Venezia delle cartoline è già un’eccezione. Salta all’occhio subito, che qui – consapevolmente o meno non importa – tutte le grandi trasformazioni recenti paiono puntare in una unica direzione, quella di prolungare l’ambiente di terraferma «moderno» in Venezia, anziché viceversa venezianizzare la testa di ponte automobilistica e ferroviaria. Lo scavalcamento del canale progettato da Calatrava sostanzialmente potenzia e rende esplicita questa infiltrazione, sia per la qualità visiva dell’infrastruttura che per la sostanza dell’opera e l’inserimento nel contesto.

Si badi bene: non si tratta, qui, di schierarsi pro o contro un modello o l’altro, ovvero tutela assoluta versus trasformazione o adattamento, conservazione vs innovazione eccetera. Come per le grandi navi, la questione puramente visuale per quanto centrale è solo un sintomo di qualcosa di più profondo. Nel caso della contaminazione automobilistica strisciante, piuttosto, il problema è capire, e semmai decidere coerentemente: si deve o non si deve creare una barriera invalicabile alla città d’acqua/pedonale, col suo delicato tessuto spaziale, permeablità, che coinvolge anche il sistema socioeconomico dei percorsi con le botteghe e via dicendo? Il progetto di trasformazione implicito che include il ponte di Calatrava, sommandolo ad altre piccole e grandi cose dal XIX secolo in qua, pare spostare questa barriera in avanti, tendenzialmente verso il Canale di Cannaregio.

L’asse di accessibilità diretta, visivo e fisico, da Piazzale Roma, è un implicito moderno shopping-mall (che guarda caso ha suscitato da par suo le proteste dei negozianti sull’altra riva del Canal Grande). Ma torniamo al fatto di cronaca, quando i ragazzi alticci della terraferma, in vena di bravate alcolico-automobilistiche, si comportano come parrebbe coerente, a qualunque sensibilità suburbana consolidata, nel parcheggio di un centro commerciale. Colgono l’occasione di trasgredire ma non più di tanto, usando coerentemente il virtuale «parcheggio di corrispondenza» a campo San Geremia. Non c’è il sacrilegio considerato dai conservazionisti, in quel gesto, e nemmeno più di tanto la follia alcolica di certe corse notturne da discotecari padani: solo una piccola cosa, assimilabile soggettivamente a un breve contromano per parcheggiare, o ingresso nella ZTL di un centro storico senza autorizzazione. Il guaio vero, l’ha combinato nel tempo chi pezzo su pezzo ha riplasmato un brano di Venezia scimmiottando la città «vera», che guarda caso è plasmata sull’auto. In fondo lo diceva Henry Ford un secolo fa: la città è piena di problemi, e per risolverli in fondo basta eliminarla, e con l’automobile si può. Resta da capire, fra picchi petroliferi e cambiamenti climatici, se il gesto marinettiano dei giovani sbucati dallo sprawl veneto, magari ascoltando a tutto volume gli Arcade Fire, non possa essere interpretato ben oltre una questione di ordine pubblico. Con certi chiari di luna, prima di ucciderli a Venezia come consigliava Marinetti, forse val la pena riflettere: com’è fatta la città? E come continuiamo a riprodurla un po’ perversamente, senza pensarci?

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