Autosufficienza alimentare dentro la Tangenziale

Ci sono posti dove non ci si aspetterebbe certo di trovare un maiale, e nonostante in effetti io prima non ci avessi ragionato poi tanto, devo dire che un complesso di case di alto profilo a Romford sarebbe stato uno dei più improbabili.
É buio quando alla fine arrivo all’allevamento di Tracy Mackness – per motivi misteriosi, ho deciso di iniziare la mia caccia al maiale urbano alle nove e mezza di sera – dopo essermi districata nella stradina a sole due corsie scarse, fino a quei terreni, attraverso un varco tra gli edifici e giù per un viottolo sconnesso fino a uno spiazzo non più grande di un normale lotto suburbano per casa con giardino. Qui, col traffico che rumba in sottofondo, ci stanno decine di schiene rosa o pezzate che grugniscono tranquillamente nel buio.
E l’improbabile allevamento di maiali non è ancora nulla rispetto all’improbabilità dell’allevatore. Di solito si tratta di persone che l’attività l’hanno ereditata, qualcuno ci arriva come passatempo per ricchi. Tracy Mackness, lei ha cominciato a metà di una condanna a dieci anni per un giro di spaccio di cannabis da quattro milioni di sterline.

“Se dieci anni fa mi avessero detto che ero destinata a passare venti ore al giorno coi maiali dopo essere uscita di prigione, non ci avrei creduto nemmeno morta” mi racconta nella baracca mobile che funge da ufficio (la casa è un altro fabbricato mobile a tre metri di distanza). “Ero una ragazza che se la spassava” ricorda Tracy. “Mi piaceva frequentare i locali, fare le vacanze. Così cercavo un certo tipo di uomini. Ecco soprattutto perché poi sono finita in quel pasticcio”.
Cercavo maiali, ma qui trovo anche maiali con alle spalle una storia per cui uno sceneggiatore di Hollywood potrebbe uccidere sua madre. Dopo qualche anno, Tracy viene trasferita in un carcere aperto a Maidstone, Kent, dove c’è annessa un’azienda agricola. “Mi sono trovata di fronte una scrofa, ci siamo guardate negli occhi e mi ha catturata. Aveva un’aria sconvolta, quel giorno le avevano levato i cuccioli, ed ero sconvolta anch’io, appena passata dalla condizione di carcerata con una mia cella, a dividere un dormitorio con altre 14 donne. Lei mi ha guardato, io ho guardato lei, e ci siamo sentite entrambe sulla stessa barca”.

Il responsabile dell’attività poi l’ha aiutata a cominciare con la riproduzione assistita dei maiali, e durante l’ultimo anno di libertà vigilata ha lavorato da un macellaio. Adesso, nonostante siano passati solo tre anni, la sua Giggly Pig Company ha 500 maiali, e 20 furgoni che riforniscono i farmers’ market in tutta Londra.
Una storia straordinaria insomma, anche prima di arrivare ai maiali veri e propri, che tra l’altro hanno un ottimo aspetto: mi consegna un taglio di spalla scelto e mi allontano nel buio. Sfiancante, e non molto amico dell’ambiente in fondo, questo correre in giro per le aziende agricole urbane londinesi. Attraverso su e giù tutta la città, e mi pare di star per tutte le ferie dal mio lavoro in banca praticamente immobile nel traffico, a chiedermi se poi è stata davvero una idea tanto brillante.
É più o meno la stessa cosa che mi dice Oliver Rowe, chef al ristorante Konstam, quando gli racconto che voglio scrivere di agricoltura urbana, e dell’idea di costruirmi un pasto completo stando al di qua dell’autostrada 25. “Qualcuno mi ha avvertito che sarebbe passata” risponde. “E mi sono detto: beh, è quello che noi facciamo tutti i giorni”. É vero, questa del localismo alimentare è un po’ la parola d’ordine che circola di questi tempi, insieme al prodotto di stagione e alla denominazione, e Konstam si vanta di prelevare l’80% dei propri ingredienti dall’area della Greater London.

Si mangia magnificamente, ma nell’elenco dei fornitori di Rowe figurano anche le zone di Southend, Kent e Oxfordshire, mentre io voglio restare dentro i limiti della M25, a quanto pare per potermi godere al massimo tutti i possibili ingorghi stradali. In realtà lo faccio perché posso farlo. E ogni giorno arriva una nuova scoperta. Si producono tantissime cose da mangiare a Londra, in modi così ingegnosi, in qualche caso aziende commerciali, in altri imprese sociali: frutteti urbani, orti circolanti, tetti coltivati sopra gli edifici più alti, e tutto quanto ci può stare in un comune cortile.
Per prima cosa un allevamento di quaglie, quello di Ronnie Hudgell a Newham, est londinese, che si rivela essere uno studente quindicenne. Ha cominciato con delle uova a tredici anni, facendosele spedire da una signora trovata su internet, e adesso tiene polli, anatre e oche, tutto nel giardino di mamma e papà, che non è poi tanto grande, attorno alla casa a schiera. “Ho anche tentato di far schiudere un uovo di struzzo” mi racconta. “Ma non ha funzionato”. La cosa, ne sono convinta, ha fatto segretamente un gran piacere a sua madre Dawn.

L’ultimo giorno mi ritrovo a parlare con Orlando Clarke, apicoltore, vicino al tracciato ferroviario a King’s Cross. Giù mi trovo nel bel mezzo di una esperienza piuttosto surreale – mi sta dimostrando quanto sono diversi in gusto il suo miele prodotto a Peckham e quello di King’s Cross (“Capisce che il miele di Peckham è leggero e asprigno, mentre quello di King’s Cross è molto più complesso?”) – ma poi Alex Smith, proprietario del terreno su cui stanno le api (del verde ricavato negli spazi di un deposito industriale) mi chiede se voglio visitare la vigna.
La che cosa? Ci incamminiamo lungo una piattaforma di carico, dove una decina di uomini sta spostando scatoloni coi muletti, e alla fine innegabilmente c’è, una piccola vigna. “É un pendio affacciato verso sud, so perfetto per la vite. Guardi qui, l’ho piantata solo l’anno scorso ed è cresciuta quattro metri. Chateau King’s Cross: quest’anno la prima vendemmia”.
Ma poi quando la racconto a Rosie Boycott – Boris Johnson l’ha nominata a capo di London Food, nel quadro del progetto città sostenibile – lei mi racconta: “Oh, ma di vigne ce n’è in tutta Londra oggi. Da Tooting, a Canning Town, a Islington”. Chateau Tooting, partito dall’iniziativa di un gruppo di vicini, adesso è la Urban Wine Company, e a Enfield, l’anno scorso si è insediata la prima vigna commerciale di Londra, Forty Hall (“dai tempi dei Romani”,recita l’opuscolo).

Il vino sarà pronto solo nel 2012, e per un pasto davvero completo ci vuole un po’ di alcol, così alla fine ne trovo a Brentford, gentilmente offerto dal giardino di Sara Ward. Tiene un blog, Hen Corner (“Un angolo di campagna nell’ovest londinese“), e suo marito Andy mi racconta come si è fatto un torchio da sidro con “un po’ di legno e il cric della macchina. Più precisamente, due cric”.
Mi prendo una bottiglia del loro sidro – dolce, forte, pungente – e poi, sorpresa!, ne trovo anche una di Orahovac, liquore di noci. Lo fanno Thomas Parkinson e Roland Phillips, che tengono un sito web, London Forager, dove si propongono filmati un po’ di sapore antico, sul modo di farsi frittelle coi denti di leone o champagne di sambuco.
Roland mi racconta che stavano passando davanti alla stazione della metropolitana di Blackhorse Road tube a Walthamstow, e anno visto un albero di noce oltre una recinzione. “Siamo saliti per coglierle ma la polizia ci ha bloccati. Ci hanno controllato a fondo, come se potessimo preparare un attentato terroristico”.

Glie l’avete detto che stavate semplicemente raccogliendo cose?
“Certo. Ma ci hanno risposto che eravameo invece degli idioti”
La famiglia Ward a Londra ha un giardino più grande della media – è una posizione d’angolo – con polli e alberi da frutto, però il compito della responsabile signora Boycott è di scoprirne di nuovi, col programma Capital Growth, obiettivo trovarne 2.012 entro il 2012. “Si tratta di ripensare al concetto di giardino. Gli spazi spesso sono cortili asfaltati” racconta.
C’è una enorme domanda. Gli orti hanno liste d’attesa di anni, l’hobby di tenere polli è sempre più diffuso, anche se la vera moda adesso è quella delle api urbane. “Li chiamo gli apicoltori Gucci ” mi dice Orlando Clarke. “Tutti con quelle attrezzature impeccabili. Adesso c’è anche l’arnia di plastica, la Beehaus, che si compra completa di api”.
La cosa naturalmente non riguarda solo Londra. Io me ne occupo perché ci abito, e London Food, organismo per sviluppare un sistema alimentare sostenibile nella capitale, ha avuto una spinta enorme grazie alle Olimpiadi, ma l’interesse nella produzione alimentare urbana riguarda almeno tutta la Gran Bretagna. A Manchester si è sviluppata una strategia alimentare integrata. E anche a Sheffield, Sunderland, Liverpool, ci sono iniziative del genere.

Solo gocce nell’oceano, naturalmente. Uno dei molti risultati imprevisti dell’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull è stato quello di mettere in luce quanto precario sia il nostro sistema di approvvigionamento alimentare. Importiamo il 95% della frutta, il 60% della verdura. Si stima che l’80% di tutto quanto mangiano i sette milioni e mezzo di londinesi arrivi dall’estero. Dimenticatevi di al Qaeda: a metterci in ginocchio sarà piuttosto uno sciopero dei traghetti della Manica.
La valle del Lea a est di Londra era la più importante concentrazione di orti del mondo, e ce ne sono ancora, gestiti dai discendenti degli italiani arrivati qui per lavorarci negli anni ’50, però in molti casi sono stati smantellati per far posto alle case. A Uxbridge, Duncan Mitchell racconta che c’erano decine di allevamenti da latte, adesso sono rimasti soltanto il suo e un altro.
Un altro angolino strano. Appena all’interno della M25, prendo una strada laterale e dopo un chilometro arrivo alla White Heath Farm, un bell’edificio tradizionale non restaurato di epoca Georgiana, su cui sicuramente gli speculatori locali vorrebbero mettere le mani. L’area è stata acquisita dal London County Council dopo la guerra come superficie green belt, e Don Mitchell, ottantacinquenne padre di Duncan, sta qui dal 1958. La famiglia gestisce i terreni in affitto – 52 ettari per 120 vacche – dall’amministrazione di Hillingdon.

“Sono stati molto corretti, l’affitto non è caro, ma è difficile camparci. Se vendiamo alla latteria, sono 22p al litro mentre ci costa 25p al litro produrre”. Così hanno aggirato il problema, e producono gelato, me ne prendo una confezione, più un po’ di latte e panna.
Nessuno sa con esattezza quante aziende agricole ci siano a Londra. Leggo in un rapporto che sarebbero 500, difficile da credere. “Anch’io credo che sia un po’ improbabile” giudica Rosie Boycott. “Non ne ho trovate tante. Comunque ce ne sono. Naturalmente è azzardato pensare che Londra possa mai prodursi da sola ciò che mangia, ma possiamo fare molto sostenendo i piccoli operatori che entrano nel mercato. Naturalmente ci vuole molto lavoro di informazione”.
Vero, gran parte dell’agricoltura urbana è legata all’azione dal basso. Seb Mayfield, dell’associazione di settore Sustain, sottolinea quanto “molto di ciò si fa negli orti di quartiere è orientato più alla coesione sociale che alla produzione in sé “. Ottimo, però non risponde alla mia domanda. Vado a vedere un orto realizzato dall’architetto e artista Fritz Haeg, commissionato dalla Tate Modern in un quartiere del sud londinese. Haeg sostiene l’idea che definisce dei “Quartieri commestibili” e ha anche steso un manifesto dove si invita l’America a disfarsi dei suoi prati davanti alle case e piantarci invece delle verdure. Questo orto ha avuto un gran successo con gli abitanti, ma quando vado a frugare per il mio pranzo (il mio contatto non c’è) me ne vado con solo qualche fragola di bosco e della salvia. Mi capita però anche di scoprire cardi e verze lungo una strada a Lambeth. Richard Reynolds, un “guerrigliero degli orti” specializzato in “colture illegali”, mi dà le indicazioni per una grande rotatoria a verde all’incrocio fra due trafficate arterie, dove tra i soliti fiori e arbusti trovo anche delle verdure, mentre dagli sguardi di chi passa mi pare di capire che sembro una ladra.

Non hanno un’aria molto appetitosa, schizzate di fango e anche di quelle che sembrano gocci di gasolio. Non sono proprio sicura di volerle assaggiare. A Hackney però seguo Sara Davies in un posto che si chiama Allens Gardens, dove mi raccoglie la più allettante insalata mista che abbia mai visto: mentuccia, cicoria, acetosella, cime di rapa, cardi, origano, erba cipollina, calendola. Sara lavora con Growing Communities, gruppo di acquisto verdure a cassetta a cui sono abbonati seicento abitanti di Hackney. Gran parte dei prodotti arriva da piccole aziende dell’Essex o del Kent, ma le insalate si fanno qui, in tre orti gestiti sia da personale stipendiato che da un gruppo di volontari.
È uno dei più riusciti programmi del genere: ce ne sono altri cinque che si stanno concretizzando. Cosa inconsueta, questo tipo di cose è del tutto autosufficiente. Sono centinaia, e comprendono anche 15 city farm, come la decana Mudchute, tredici ettari all’ombra del Canary Wharf. Orti, molti gestiti da cinesi e vietnamiti che abitano nei paraggi, e ci vado nella speranza di trovare pak choi, peperoncini, castagne d’acqua … Niente da fare, ma almeno Peter Turner, pastore in pensione, mi promette un po’ di rabarbaro.

Se ne trova, ne ho già per caso raccolto che cresceva selvatico in un angolo dei miei giardinetti, ma l’avevo messo insieme alle altre cose dubbie. Alla fine inizio a preparare. Mescolo i cavoli guerriglieri di Richard con dell’aglio selvatico che ho trovato, aggiungo le uova di quaglia di Ronnie e l’insalata di Hackney, poi cucino il maiale di Tracy e un intingolo col sidro di Sara, a parte la sua salsa di mele al peperoncino. Per dolce crostata al rabarbaro fatta con le uova razze scelte di Ronnie, il latte e panna dei fratelli Mitchell, il miele di Orlando, accompagnata dal liquore di noci di Tom e Roland, più il gelato alla vaniglia dei Mitchell.
Non è un menu tra i più sofisticati, però viene tutto da Londra, salvo quello schizzetto d’olio o manciatina di sale. Tutto delizioso, davvero, il che non è cosa da poco viste le mie abilità culinarie. Succulento il maiale di Tracy, fantastica la panna dei Mitchell. Anche quel cavolo da rotatoria di traffico passato al vapore, beh, sa proprio di cavolo. Magari può suonare non terribilmente allettante, ma certo più di qualche chiazza di gasolio. “Da dove vengono le verdure?” chiede la mia amica Anna. “Oh, Lambeth…” rispondo. Perché va bene voler sapere da dove arrivano le cose che mangiamo. Ma magari solo fino a un certo punto.

The Observer, 20 giugno 2010 Titolo originale: Urban farms: can you source a complete meal from inside the M25? Traduzione di Fabrizio Bottini

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