Bestiacce urbane di tutto il mondo: unitevi!

Foto Daily Mail

Gran cosa la scienza, se non finisse vittima del proprio stesso metodo. Cioè, giustissimo restringere anche all’impossibile e oltre l’oggetto e prospettiva di osservazione, ma poi non bisogna scordarsi mai (mai) di ricollocare per gradi il risultato di conoscenza parziale dentro i vari contesti a cui si riferisce. Nessuno escluso, neppure quello esterno alla disciplina che eroicamente si era fatta carico di questa nuova esplorazione oltre le frontiere del conosciuto. E invece ci sono sempre un sacco e una sporta di motivi, pur comprensibilissimi e perfettamente legittimi, perché ciò non accade: il linguaggio a volte ostico e/o l’assenza di adeguati interfaccia comunicativi, l’adesione a un metodo che magari non è proprio del tutto sovrapponibile ad altri senza rinunciare a qualcosa ritenuto qualificante, o semplicemente la voglia di rafforzare la propria identità, prestigio, ruolo sociale. Tutto pare in agguato, per far sì che le scoperte (quelle vere, senza virgolette) spesso finiscano per non essere davvero tali, ovvero per non far fare alcun passo in avanti alla consapevolezza collettiva, restando invece allo stadio di piccolo attrezzo esclusivo per una piccola cerchia di adepti. Pensiamo all’ambito, pur ampio e di per sé già parecchio interdisciplinare, degli studi sulla cosiddetta fauna urbana.

Quadrupedi borghesi, proletari, operai e contadini

C’è stato un tempo in cui la fauna urbana era qualcosa di relativamente semplice e diciamo così facilmente conoscibile: qualcuno con un ruolo operaio, altri contadini, una ristretta élite borghese e l’abisso insondabile (qualitativamente residuale, quantitativamente incombente) del lumpenproletariat. Possiamo classificare come fauna urbana contadina tutti quegli animali che anche se traslocati intra moenia continuano a svolgere, esattamente come fuori dalle mura, la funzione che avevano e hanno nel mondo rurale, ovvero lavorare e/o esistere per l’alimentazione umana, cioè animali da cortile, api di arnia eccetera. Gli operai sono una classe più specializzata e ristretta dei contadini, classicamente, pur costituendo una massa non indifferente, e lavorano come forza motrice per le più svariate attività, ma particolarmente nei trasporti, come i cavalli fino all’avvento della mobilità meccanica e oltre. Il cavallo, secondo moltissimi «animale nobile» per eccellenza, come ci insegna la storia dell’arte, è un buon esempio anche di promozione sociale e cooptazione all’elitario ceto borghese, quadrupede o bipede che sia, degli animali da affezione, dal canarino in gabbia, attraverso i palafreni selezionati dalle più esotiche razze per il vezzo dei ricchi, fino a gatti, vergini cuccie e affini. Resta lo sterminato oscuro mondo degli indesiderabili, dei parassiti da sterminare perché considerati solo dannosi, il lumpenproletariat della pulce, del ratto delle chiaviche, dello scarafaggio o serpentello che fanno strillare le damineorripilate che se li ritrovano in camera. Ma poi arrivano gli studi scientifici, e si illumina il sol dell’avvenire della felicità futura.

La liberazione dalle catene dei ruoli prefissati

La città moderna, oltre ad attraversare varie fasi di espulsione di alcune specie animali (specie quelli contadini) per motivi igienici, o assistere alla crescita tumultuosa della middle class piccoloborghese degli animali da affezione, dei loro diritti, spazi, servizi, vede anche una maggior consapevolezza del ruolo reale e potenziale di questi nostri conviventi nell’ecosistema territoriale dentro cui la città sta collocata. Sono gli studi scientifici, naturalmente, oltre all’esperienza quotidiana, a raccontarci del profondo rimescolamento sia ambientale che di relazioni via via subito dalla città contemporanea, a causa di almeno due grandi fattori concomitanti: il miglioramento delle condizioni interne, e il cosiddetto urban encroachment, ovvero urbanizzazione pesante e leggera di territori un tempo habitat naturale di associazioni vegetali-animali, a cui si aggiungono violentemente l’uomo e le sue infrastrutture, ma dentro cui al tempo stesso gli antichi abitanti si si sforzano di sopravvivere, a volte con risultati sorprendenti. Quello che accade, sia per la fauna domestica che per quella selvatica, a loro volta articolate in tantissime specie e ruoli, possiamo chiamarlo ridefinizione di classe. Basta pensare cosa sta significando con la gran moda dell’agricoltura urbana, il ritorno pianificato di tante specie dentro i confini urbani, stavolta con funzioni sia neo-contadine che in qualche modo inserite in quelle degli animali da affezione. Oppure la scomparsa, per motivi di conoscenze e precauzioni ambientali-sanitarie, di alcune forme di lotta ai parassiti, nonché l’affermarsi di concezioni olistiche anche nel governo tecnico urbano, che tendono a rivalutarne le funzioni per l’ecosistema. Fino a veri e propri ribaltamenti concettuali, come quello ben riassunto dall’articolo qui sotto, secondo cui le bestie minacciose del passato non sono più tali: il pericolo, volendo, dobbiamo cercarlo in quelle più carine e simpatiche. Se non è una rivoluzione, ci assomiglia proprio tantissimo.

Riferimenti:
Stephen Moss, Forget foxes, Bambi is the new urban menace, Daily Mail, 24 giugno 2017

 

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