C’è in giro certa gentry!

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Foto M. B. Fashion

Esiste una versione nazionalpopolare del famoso antoniettiano “perché non mangiano brioches?”. Accade perché il mondo si sta segmentando in comparti poco comunicanti, a rendere quasi ovvia la proliferazione di equivoci. Qualcuno tira fuori una bella parola di successo, che riassume efficacemente qualcosa, e quella parola se ne va per i fatti suoi, a significare quel che decidono di appiccicargli i suoi utenti occasionali, prima di scendere dal trenino comunicativo e lasciar posto ad altri. E così, come nel caso della mitica regina la parola “pane” non riassumeva affatto tutte le implicazioni del mangiare, ivi compresa la sopravvivenza, capita che altrettanto intricate istanze urbane caschino un po’ sbilenche nella testa di chi se ne fa interprete. Esemplare il caso della cosiddetta gentrification.

Per partire col piede giusto, meglio farlo dal principio, visto che non è poi tanto remoto. Ovvero dalla descrizione che ne fa la sociologa urbana britannica Ruth Glass che ha osservato l’emergere del fenomeno, coniando il neologismo nel suo London: Aspects of Change (Centre for Urban Studies, London: MacKibbon and Kee, 1964): “Uno per volta tanti quartieri operai sono invasi dal ceto medio, varie fasce di ceto medio. Piccoli gruppi di modesti decrepiti villini, giusto due stanze al pianterreno e due al primo, una volta scaduto il contratto d’affitto di chi li occupa, si trasformano in eleganti costose casette […] Una volta cominciata, questa ‘gentrificazione’ dilaga rapidamente finché tutti gli occupanti originali di ceto operaio non vengono allontanati, e muta l’intero assetto sociale della zona”. Così, tanto per capire esattamente il primo salto dal concetto tradizionale di gentry all’uso urbano moderno. E naturalmente non è finita.

Perché la sostituzione sociale nei quartieri da allora si è riproposta in tantissime varianti, ad esempio col processo di controllo quasi militare dello spazio attraverso brutali trasformazioni edilizie, ben diverse dalla ristrutturazione dei villini, come ha raccontato qualche anno fa Anna Minton descrivendo le gated communities urbane dell’era post-Thatcher. Oppure con la variante newyorchese osservata in particolare nella lunga era Giuliani-Bloomberg, connotata soprattutto da processi striscianti, in cui alle onde concentriche della tolleranza zero si accompagnavano piccoli investimenti in ristrutturazioni di singoli alloggi o esercizi pubblici, in modo forse analogo per certi versi a quanto raccontato da Ruth Glass, ma diversissimo per contesto e dimensioni, e forme urbane. Ma fino al punto di ribaltare interi distretti urbani specie verso Brooklyn, la loro immagine nel mondo, i valori immobiliari, e con effetti immensi sulla regione urbana verso cui vengono convogliati i ceti espulsi. La complessità notata da tanti a Brooklyn introduce però un’altra questione: vale ancora qualcosa la dizione originaria di gentrification?

Ovvero: quanto osservato dalla Glass rappresentava una tendenza, che successivamente proprio i suoi studi hanno messo in luce, e consentito a chi di dovere, magari, di intervenire. Constatato ormai da lungo tempo (in pratica dall’era degli sventramenti ottocenteschi) come i puri meccanismi di mercato in pratica rovescino sulla collettività e l’ambiente urbano i costi del vantaggio di pochi, ci possono essere due letture del fenomeno: la prima è quella del 1964, contestuale, che legge la città come intreccio di classi attività e spazi, e che ha tutto da perdere in vitalità e resilienza dopo certe indebite semplificazioni e segmentazioni, magari sostenute da uno zoning compiacente; la seconda, di solito liberista ma non è detto, individua un processo inverso quando un quartiere che si ritiene moribondo per scarsa attrattività di investimenti finanziari e personali, vede grazie alla sostituzione sociale un influsso di nuova linfa. Ecco, entro questi due estremi di lettura, probabilmente entrambi modelli del tutto teorici almeno su dimensioni non limitate, stanno poi tutte le vacche grigie nella notte dell’interpretazione. Ma ci stanno anche tanti strafalcioni.

Prendiamo l’ultimo assai alla moda, guarda caso ispirato alle nostalgie del bel tempo andato così in voga nel nostro stanco mondo occidentale, che confonde l’essere col divenire, l’alto col basso, la sinistra con la destra e chissà che altro. Lo strafalcione, più diffuso di quanto non possa sembrare a prima vista, scambia i conflitti per battibecchi da cortile, o viceversa. La città in buona sostanza di conflitti vive, si alimenta: come diceva qualcuno il conflitto è il motore del mondo, o almeno il suo carburante. Il battibecco da cortile è tutt’altro, al massimo una delle numerose forme in cui quel conflitto si può esprimere, proprio a dargliela buona. E invece. E invece si legge del disagio perché il vicino di casa si lamenta dei rumori di strumenti musicali, o del chiasso di bambini che giocano nel vicolo, e questo viene interpretato come “scarso rispetto della storia locale”! Puzzetta di nostalgia canaglia, dietro a queste stravaganti interpretazioni del prevedibile scontro fra abitudini popolari e orari da yuppie col posto di responsabilità nella City, o tra le famiglie numerose dei lavoratori, e i singles ideologicamente tali pronti a scucire somme da capogiro per il microappartamento affacciato su strade ancora non del tutto colonizzate, e magari chiuse da massicci cancelli.

E una citazioncella di cronaca dei nostri giorni, per una provvisoria ma brusca conclusione. Pare che l’ottuagenario padre di Spike Lee si sia sentito scocciato oltre il limite, dal vicino borghese che inopinatamente si lamentava del suo jazz suonato a mezzanotte: “non si è mai lamentato nessuno in tutti questi anni”. Ma la questione spiace proprio dirlo è un’altra: sia il quartiere popolare puro che quello borghesotto sterilizzato sono dei cadaveri urbani. Esistono solo artificialmente mantenuti da fattori esterni, sono privi di vitalità e resilienza propria. Di questo ci voleva avvertire l’intelligente sociologa coniando quel termine, gentrification. Cerchiamo di rendere omaggio alla sua memoria (è scomparsa nel 2009) usandolo in modo proprio, se possibile.

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