Antidoti casalinghi all’utopia neofascista incombente

bellerio

Foto F. Bottini

La Lega Nord si avvia a diventare partito nazionale, e in tutto il mondo, grazie alla rete e a certa oggettiva smaterializzazione dei processi, altre formazioni ideologiche reazionarie si danno statura politica e mirano a occupare territorio e istituzioni in modo assai più pervasivo di prima. Il che pone per chi si occupa a vario titolo di territorio, e giustamente teme come la peste nera lo sganciamento del fattore fisico-ambientale da quello delle relazioni e del potere, iniziare a riflettere su cosa sia stata, da noi e altrove nel recente passato l’organizzazione totalitaria dello stato, della società, e nei suoi riflessi territoriali.

Quel modo schematico, a volte velleitario, a volte semplicemente autoritario ma pervasivo, di gestire processi e progetti, ed eventualmente di manipolarli mediaticamente se tutto non funzionava come previsto. Perseguendo una utopia che, come in tutte le idee autoritarie (anche in quelle totalizzanti autoritarie diciamo a propria insaputa) non poteva fare ameno di un rigido contenitore. In testa a tutte queste tascabili utopie realizzate, la bonifica integrale dell’Agro Pontino, vetrina internazionale di efficienza nella pianificazione regionale e nella costruzione di borghi rurali integrati. Utopia perfetta, che come raccontavano nei dettagli le foto e gli articoli della rivista tematica, La Conquista della Terra, affondava le proprie radici nella gloriosa storia e identità nazionale, ma sapeva al contempo cogliere tutte le opportunità del progresso scientifico, naturalmente unite alla volontà popolare concentrata in quella del suo Duce … eccetera eccetera.

Attenti a non offendere nessuno dei propri sponsor politici, ma nondimeno attenti anche a evitare scivoloni troppo bruschi nel ridicolo, i pionieri delle discipline territoriali provavano (come del resto l’inventore del modello di riferimento, l’economista agrario Arrigo Serpieri) a costruire una cornice metodologica un po’ meno rischiosa e campata per aria, sviluppando la cosiddetta Urbanistica Rurale o come chiamata poco dopo la guerra Ruralistica. Ma poco si poteva contro le bordate mediatiche in bilico fra autoritarismo puro e semplice, e gran voglia di stendere cortine fumogene su qualunque empirica ragionevolezza. L’ideologia del felice ritorno alla campagna, tra un dittatore trebbiante a torso nudo e le piccole esercitazioni un po’ leziose di qualche architetto cultore di materiali tradizionali, la faceva da padrona almeno sulla carta, e ovviamente nelle teste delle masse variabili a cui questa carta era indirizzata. Le cose andavano invece in altri modi, perché ovviamente del progresso urbano-industriale non se ne poteva fare certo a meno, e anche dietro agli archi e statue delle tavole di concorso per piani regolatori stavano solidamente piantati gli interessi che in altri modi avrebbero poi costruito i nuovi quartieri, i capannoni, le strade, i ponti, e tutto quanto ci stava dentro.

Oggi ci sarebbe una cosa diversa, la libertà di parola ed espressione, per quanto un po’ limitata dal potere economico che condiziona la comunicazione, in un modo o nell’altro. Accade infatti che si dicano peste e corna di ogni cosa, dentro e fuori i limiti della querela o del buon senso. Non pare però cambiata la funzione dell’utopia, e il suo dilagante potere ottundente: ottundente perché pare proprio inibire la riflessione. Il ruralismo da cartolina rispunta imperterrito dappertutto: siete in fila in autostrada? Ah, che bello stare in campagna! Pestate le cacche di cane sul marciapiede? Oh, che bei ricordi le corse sui prati dietro casa della nonna al paese con Fido! Il panino al bar sa di plastica? Se potessi coltivarmi io l’insalata nell’orto, magari anche con un paio di maiali che mangiano le ghiande del bosco, vedresti che piatti squisiti! A nessuno sembra passare per la testa che i pochi discendenti della famosa Ruralistica, i congressisti dell’Inu che a cavallo fra anni ’50 e primi ’60 provavano a dare un minimo di equilibrio allo sviluppo nazionale discettando di Nuove Esperienze Urbanistiche in Italia (ovvero una specie di versione democratica dell’Agro Pontino) si sono via via zittiti da soli, per esaurimento fisiologico o sfottò della politica dei notabili locali. Ma l’imprinting delle cartoline illustrate dal paese dei nonni è duro a morire, più forte di qualunque ragionamento.

E come l’emergere della Lega si inserisce in un più vasto risorgere della più bieca reazione a scala mondiale, il nostro strapaesano ruralismo fascista si ripresenta altrove in forme diverse, ad esempio oltre Manica sfruttando la scia infinita dell’immarcescibile Città Giardino. Non importa se tutti gli studiosi da un secolo concordano sul “tradimento originale” operato dalla politica e dai progettisti, entrambi impegnati a tirare l’acqua al proprio mulino, esaltando l’idea del profeta mentre costruivano tutt’altro. Quell’idea, invece che essere davvero sviluppata nel metodo, che aveva validissimo (l’equilibrio urbano rurale e sociale: A peaceful path to real reform, come recitava il titolo originale) finiva fotografata in una graziosa megalottizzazione immersa nel verde, certo un bel passo avanti rispetto a dove il verde non c’era affatto, ma appunto cosa diversa, come dar da mangiare a un perseguitato politico. Cent’anni dopo, immemori consapevoli o no della spinta riformista da cui nasceva quell’utopia, alcuni contabili destrorsi al governo si improvvisano profeti in patria della nuova città giardino, formato cartolina illustrata e pensata solo in quanto ricettacolo di case per i propri elettori. Nessuna seria differenza di metodo, con chi dalle nostre parti (e non solo) fra una ricetta su come coltivarsi le melanzane sul davanzale (produzione media, mezzo contorno all’anno) o costruirsi con le proprie mani una casa “ecologica” in mezzo al bosco (cento volte l’impronta di un comune appartamento urbano, ma quel che conta è il pensiero), rilancia in chiave postmoderna il ruralismo otto-novecentesco.

Tutto il mondo è paese? Magari si, però senza dimenticarsi di provare sempre a distinguere i nostri vaghi desiderata, più meno infantili, indotti, spontanei, da un briciolo di considerazione su chi ce li ha indotti. Esistono torme di persone che campano di comunicazione, che la praticano professionalmente e sono individualmente e collettivamente bravissimo a orientare di qua o di là il nostro cervello. Addirittura facendoci scambiare il caldo per il freddo, se necessario a rifilarci un magione o una bibita ghiacciata. Figuriamoci sventolare felicità eterna e futura alternativa a qualsiasi cosa ci dia fastidio qui e ora: basta pagare, o mettere la crocetta proprio lì. Mentre l’utopia dovremmo cercarla nella nostra testa, dentro gli angolini non ancora spazzati dalla ramazza di moda. Aspettando di capire quali nuove forme utopiche assumerà la Nuova Gerusalemme legaiola, evaporata dal capannone alla Comasina, proviamo a riflettere su quanto siamo localisti, o utopisti della domenica: aiuta molto, e non è autoflagellazione.

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