Ciclo Economico Metropolitano

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Foto F. Bottini

Infinite sono le vie del Signore, ad esempio per quanto riguarda i campi da golf: tempo fa un ministro italiano li metteva in cima alle panacee per tutti i mali, ma uno studioso della London School of Economics li accusava di ogni nefandezza sociale. Dario Franceschini si dichiarava convinto che proprio l’assenza di lisci prati attrezzati con apposite buche, trattenesse certi facoltosi turisti americani dallo sciamare lieti verso le nostre regioni meridionali, innescando così un necessario ciclo di sviluppo turistico. Paul Chesire invece, al contrario, individuava nei detestati prati con buche, stavolta collocati nella greenbelt tutelata britannica, un odioso strumento di esclusione, che mantiene altissimi i prezzi delle abitazioni sottraendo quei terreni all’edilizia. Due opposte quanto faziosamente strampalate teorie, che però convergono sulla centralità del problema dell’accesso: quei prati sono inutili o addirittura dannosi, se non vengono resi adeguatamente accessibili, vuoi ai ricchi americani, vuoi ai proletari inglesi ansiosi di salire sulla mitica property ladder. In fondo anche questa è una conferma di un nuovo equilibrio territoriale, nel quale perdono lievemente di centralità gli spazi, cedendone invece ai flussi, alla mobilità, all’accessibilità.

Non è forse un caso se molto del dibattito contemporaneo sulle metropoli mondiali si dedica al rapporto tra mezzi di trasporto e spazio collettivo, a volte relegando in secondo piano addirittura le strabilianti pensate delle archistar o le pur importanti politiche di resilienza ambientali e climatiche dei sindaci, che tra l’altro hanno comunque molto a spartire proprio con la mobilità, più che con la qualità degli spazi fisici in sé. Nella nostra Milano sta via via emergendo per esempio il ruolo chiave del traffic calming, strettamente connesso a una rete di vie, piazze, ambiti verdi, in cui si intrecciano sia mezzi di trasporto che relazioni sociali. Ultimo esempio gli studi sull’assai simbolico Piazzale Loreto, concepito fra epoca fascista e ricostruzione come paradigma della modernità automobilistica e del sistema di treni sotterranei, ma oggi oggetto di ricerche sia sui flussi multimodali, sia sulla percezione degli utenti, per provarne una radicale trasformazione. Inutile negare, in tutte le discussioni sulla nuova mobilità, il ruolo delle due ruote a pedali.

Anche se su questo sito spesso si prova garbatamente a distinguere fra le rivendicazioni settoriali di chi si identifica al 100% come “ciclista”, e invece un’idea più generale di città e accessibilità, è innegabile come la bicicletta sia davvero una specie di bacchetta magica in tantissime strategie di trasformazione metropolitana. Proprio con quel mezzo di trasporto è infatti possibile al meglio coniugare da un lato gli spostamenti di medio raggio tipici della città contemporanea, dall’altro una fruizione diretta di spazi e servizi efficientissima, che solo raramente e in occasioni particolarissime può essere eguagliata sia dal mezzo privato a motore che dai trasporti pubblici. Della bicicletta si sottolinea spesso anche la potenzialità in quanto mezzo sicuro, almeno là dove vengono poste le precondizioni (eventuali percorsi dedicati, gestione degli interfaccia ecc.), in grado di ridurre drasticamente quegli incidenti stradali che causano tante vittime e allarme sociale. A questa funzione collaterale molte ricerche da tempo affiancano anche quella economica.

Lo stimolo nasce soprattutto dalle contestazioni del mondo del commercio, che abituato ad un modus operandi di stampo automobilistico novecentesco, mal tollerava le trasformazioni spaziali nel segno della ciclabilità. Ne sono nate rilevazioni e ricerche in cui, partendo dal principio secondo cui è il cliente, e non la sua auto, a fare acquisti, si è dimostrato quanto la vitalità delle arterie commerciali cresca, anziché diminuire, introducendo i flussi della mobilità dolce. Con buona pace delle associazioni che ancora costruiscono campali battaglie politiche contro le Zone a Traffico Limitato. Ma c’è ancora di più: la ciclabilità in fatti non solo induce vitalità urbana ed economica, ma crea autonomamente posti di lavoro.

La Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, ad esempio nella nostra Roma attuale, a parte il famoso sindaco ciclista, trova una specie di deserto, ma calcola potenzialmente circa 150 vite salvate e oltre tremila occupati in più. Scenario che magari con proporzioni diverse a seconda dei contesti specifici, più o meno si replica ovunque nel continente europeo delle città: più circolazione di biciclette, meno rischi, più sicurezza, più lavoro. E naturalmente una maggiore accessibilità degli spazi, minore inquinamento, più qualità direttamente e indirettamente, meno superfici da destinare a parcheggi e da dedicare a funzioni pubbliche, e via dicendo. Insomma come spiega uno dei responsabili: “Trasporti, salute e ambiente sono inestricabilmente correlati a vitalità e mobilità urbane, e rappresentano una straordinaria sfida per la sostenibilità, insieme a n’occasione per migliorare la qualità della vita”. Viva la bicicletta, viva la città, e viva il buon senso, insomma. Anche se c’è tanto altro, ovviamente.

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