Coinvolgimento di media scuole e cittadini nell’urbanistica (1919)

Che cosa meravigliosa riuscire a ispirare qualcuno e indurlo all’azione. Ma il potere di moral suasion esprime una conoscenza approfondita e una buona parte della soddisfazione di riuscire è data dal sapere come ci si è riusciti. Qualcuno lo chiama «potere dell’anima» che conferirebbe a chi lo possiede un certo controllo sugli altri, come accade a sacerdoti e missionari quando diventano guide di comunità piuttosto riottose. Altri parlano di «forza psichica», ma l’aspetto più importante non è tanto il nome che si dà alla cosa, quanto ciò che consente a qualcuno di mostrare chiaramente e convincere altri a far proprio il suo punto di vista. Questo potere di cambiare le persone non si crea da solo. È necessario un duro e paziente lavoro per ottenerlo. E non si tratta neppure di una forza assimilabile a quelle che chiamiamo «da ufficio stampa». Ci deve essere alla base qualcosa da realizzare. È impossibile costruire qualcosa di permanente da conoscenze superficiali e sensazionalismi. Il fatto che questo aspetto sia così poco compreso spiega il perché di tanti fallimenti. Chi smuove altri deve avere quella forza anche dentro di sé, e non può certo riuscirci con trucchi di convincimento «o la va o la spacca».

Quindi a coloro che dovrebbero essere smossi va chiarito verso dove e come muoversi. Qui entra in campo il terzo fattore, che logicamente precederebbe gli altri. Ovvero che se non ne vale davvero la pena di tutto quello sforzo la cosa si affloscerà al primo intoppo. Se chi vuole smuovere non capisce cosa sta cercando di cambiare non raggiungerà neppure la prima tappa di quel cambiamento. «Sono cose elementari – esclama qualcuno – perché partire così dai fondamenti?». Ma esistono almeno due ottime ragioni per restare alle basi elementari quando si parla di coinvolgimento del pubblico in urbanistica: la prima è che delle circa duecento città che ci hanno provato negli Stati Uniti, solo una decina scarsa ha avuto successo; in secondo luogo, della promozione pubblica in urbanistica o non si riconosce il ruolo assolutamente fondamentale per l’attuazione, o si comprendono solo vagamente i metodi e gli scopi.

Ho presenti centinaia di articoli sull’argomento, principalmente scritti da tecnici. Tutti affrontano il tema con piglio «specializzato» senza dedicare mai una parola al metodo. Si pubblicano resoconti sui progressi delle realizzazioni cittadine in rapporto all’urbanistica, ma se ne ignora l’aspetto di promozione pubblica come motore. Si sono scritti tanti libri, ma nessuno a sostegno della necessità di adeguati metodi di formazione e promozione. Ciò può derivare da stupidità, ignoranza, superficialità, forse talvolta da gelosie. Su richiesta del direttore scrissi un articolo per un importante giornale di New York. Persona sensibile e molto attenta al proprio ruolo mi avvisò di «andarci leggero ma deciso» ma poi anche di «andarci pure pesante». Dopo la pubblicazione del pezzo osservava che «Nessun articolo mai proposto da questo giornale sul tema dell’urbanistica aveva sollevato tanto interesse e polemiche, ed è un’ottima cosa».

Quando il Piano di Chicago era pronto per la discussione pubblica — dopo la prima pubblicazione contemporanea di alcune componenti essenziali e illustrazioni sui supplementi domenicali di tutti i giornali (si noti marginalmente il canale propriamente promozionale) – fu lo stesso Charles H. Wacker, a capo della Plan Commission, a dirmi: «Costruite il Piano con la gente, è il primo grande passo da fare». Naturalmente il tipo di propaganda necessaria per esporre scopi e vantaggi di un piano urbanistico dipende dalle dimensioni del progetto e della città. Se si tratta di un programma circoscritto o frammentario, può essere adeguata una semplice buona informazione. Ma se si tratta di un piano generale che interessa tutta una grande città, dove ciascuna componente è parte di un tutto, un programma che richiederà parecchi anni per realizzarsi, progetto dopo progetto, allora diventa essenziale un processo continuo e ampio di divulgazione capillare. Si deve comunicare il piano nella sua interezza sin dal principio. E non basta certo una singola relazione alle autorità e a un gruppo ristretto di influenti cittadini. Il piano deve arrivare costantemente e insistentemente alle persone di ogni fascia della città. Utilizzando vari mezzi di comunicazione.

Predisposto il terreno, con una apposita versione del Piano che vivamente si raccomanda, deve iniziare una breve ma incisiva campagna che spinge alla sua realizzazione. Qui il canale più prezioso sono ancora i giornali, beato l’urbanista che non si dimentica mai quanto i suoi migliori amici siano proprio le persone della stampa. Editori, direttori, giornalisti, disegnatori di vignette, cittadini come tutti gli altri, da trattare come tutti gli altri che hanno a cuore il bene della propria città. Costruire un chiaro rapporto con loro è un metodo che invariabilmente porterà ottimi risultati. Una volta andai a tenere una relazione in una città che vantava le proprie realizzazioni urbanistiche. Dopo aver verificato rapidamente la situazione al mio arrivo, abbandonai l’idea di una conferenza formale e invece di salire sul podio scesi tra il pubblico discutendo lì le mie impressioni. E gridando all’improvviso: «Non andrete da nessuna parte se non partite col piede giusto!». La mattina successiva il principale, antico, conservatore giornale della città, dedicava una intera colonna di prima pagina alla serata. Ma non era la cosa più importante, che doveva ancora arrivare. Alcuni cittadini, tra cui gli stessi che originariamente mi avevano invitato, si sentivano oltre misura provocati. Il giornale aveva usato quella mia esplosione ammonitoria come titolo del pezzo, e un gruppo di importanti esponenti della comunità economica, nulla a che vedere con gli ambienti che di solito pensiamo legati all’urbanistica, mi spiegava come fosse la prima volta che in vent’anni il tema si conquistasse una prima pagina. E qualcuno si spingeva a dirmi: «Ah, se lei fosse venuto qui subito a provocarli così».

Immaginiamoci vent’anni di trasformazioni urbanistiche senza mai una prima pagina di giornale. E ci può essere solo una ragione: quei progetti magari in sé andavano benissimo, ma c’era qualcosa di gravemente sbagliato nell’attuarli. Nessuno sa cogliere meglio e più prontamente le distorsioni di processo di chi lavora nei giornali. La lunga esperienza al confronto con la cronaca quotidiana li rende esperti, capaci di cogliere debolezze, superficialità, metodi sbagliati di concepire un progetto. Saggio l’urbanista che, invece di agire sulla base della propria limitata esperienza, cerca il consiglio della stampa e la sua cooperazione. Molto ovviamente dipende dalla qualità del progetto: se è una valida proposta elaborata da esperi, che si affida a persone di fiducia della comunità degli affari, concepito a scala di città, oppure una modesta proposta concepita esclusivamente nell’interesse di un gruppo o classe. In quest’ultimo caso il sostegno della stampa sostanzialmente non dovrebbe esserci. Oltre al piano in sé e alle sue qualità vanno considerate anche quelle di chi l’ha promosso. Se si tratta di persone che per reputazione, schieramento per valori, senza nessuno sbilanciamento particolare sostengono giuste cause, per loro sarà facile accedere alla stampa.

Se il piano di trasformazione urbana è ben fatto, sostenuto dalle persone adeguate, si tratta di convincere i giornali. Non si può pretendere che diano tutto per scontato così come non lo danno altri. Soprattutto, chi lavora nei giornali non ama misteri, stregonerie, oscure visioni. Simpatia e sostegno sono cose da ricercarsi e così come succede agli altri cittadini devono farlo i promotori di un piano. Se l’urbanista va da chi dirige una redazione quando ha qualcosa di importante da divulgare e promuovere; se ha pazienza necessaria per farsi ascoltare da una quantità adeguata di persone; se liberamente e francamente espone il proprio punto di vista, così: «Ecco la situazione, se non otterremo il vostro sostegno possiamo anche lasciar perdere qui prima ancora di cominciare. Abbiamo le mani legate, senza il vostro aiuto non se ne fa nulla». Se l’urbanista crede fermamente in questo, se il suo piano è un buon progetto ed è nel pubblico interesse attuarlo, se tutte queste sono le premesse direi che certamente avrà il sostegno della stampa. Deve anche capire quando è il momento giusto per proporre quel progetto. Bob Bundett raccontava efficacemente: «Non sollecitare una signora ad un impegno all’estero se il suo bambino ha appena ingoiato un bottone e l’arrosto sta bruciando nella pentola». Una vera e propria parabola che vale sia per l’urbanistica che per le missioni internazionali.

Chiunque abbia mai promosso pubblicamente un progetto senza dubbio qualche volta è restato perplesso dall’apparente assenza di disponibilità della stampa ad accettare e pubblicare qualunque cosa dica. Sperava ferventemente in un paio di colonne in prima pagina e si ritrova con appena un paio di paragrafi. Non vede tracce di ciò su cui tanto contava e prima perplessità poi spontaneo disgusto iniziano a girare nei pensieri: «Ma perché – si esclama e ci si chiede al tempo stesso – c’è un grande giornale con a disposizione venti anche venticinque pagine che si ritiene siano al migliore servizio dei suoi lettori, ma ignora un messaggio che sarebbe importante, direi vitale, mentre dedica colonne su colonne a nauseabondi scandali?». Spesso me lo sono chiesto anch’io, ma poi ho smesso di restare perplesso – certo a volte dubbioso naturalmente – e alla fine sono diventato più ragionevole alla luce di quelle acerbe esperienze, e devo dire anche grato per la generosità di chi mi ha dedicato un po’ di spazio sui giornali, al lavoro sulle cose che mi interessavano.

Non ho nessun preconcetto contro la stampa, ma dobbiamo considerare come ogni giorno dell’anno in media un giornale metropolitano scarti dieci volte tanta «roba» quanta ne pubblica, e non debba quindi stupire che anche argomenti di indiscusso valore finiscano nel cestino anziché in rotativa. Un grosso giornale è un complicatissimo e anche affascinante meccanismo da gestire. Dovrebbe anzi meravigliare che riesca a pubblicare tante autentiche notizie, o articoli particolari che non sono strettamente notizie, approfondimenti, editoriali, vignette, umorismo, e che ogni ventiquattro ore ne esca una versione completamente diversa dalla precedente. Così come succede con le consegne delle Poste, che avvengono con continuità e quasi infallibilità, la vera sorpresa con la stampa quotidiana è che faccia così pochi errori in quel frenetico raccogliere e stampare le notizie dal mondo.

Si sente di alcuni che reagiscono a fraintendimenti o ciò che chiamano «pubblicazione di notizie confidenziali». Persone che amano parlare, ma non sempre sembrano caute rispetto a ciò che dicono o a ciò di cui parlano, e si lamentano moltissimo per non aver avuto il trattamento che ritenevano di meritarsi. Egoismo, idiosincrasie, pregiudizi, animosità, un po’ di megalomania, sono in genere le ragioni per cui succede. I giornali concedono poco spazio e respiro a chi soffre di queste malattie. Chi lavora nei giornali è in grado di diagnosticare al volo queste debolezze umane. Undici anni di rapporti personali con la stampa mi mettono nella condizione di non vederci alcuna preclusione o prevenzione. Non posso che provare un profondo rispetto per il potere dei giornali in quanto miglior mezzo di comunicazione ed educazione attuale. Il problema è che moltissimi vivono la propria professione e cultura troppo dal di dentro e non riescono a capire quella altrui. Finiscono per considerare la propria sfera l’unica riconoscibile, null’altro conta.

Il lavoro dei giornali è quello di stampare notizie ogni giorno e farsi leggere da tutti. Compito dell’editore è far sì che articoli e contributi si rivolgano al pubblico così come si ritiene sia il suo umore. Da questo punto di vista il giornale assomiglia un po’ a una sala cinematografica. I frequentatori abituali spesso si chiedono perché mai si mettano in programma certe pellicole che loro memori di produzioni senz’altro migliori non apprezzerebbero mai. Ma si scordano che al cinema ci va ogni genere di spettatori, diverse classi ed età. Allo stesso modo un articolo che compare su un giornale e non piace a qualcuno piacerà invece a qualcun altro. Sfortunate le città che non trovano la cooperazione dei propri giornali nelle questioni locali. Che magari non si oppongono a nulla in particolare, ma non si sforzano certo di collaborare. Lo lamentano spesso anche a me vari esponenti di varie città. Ma guardando bene si scopre spesso che l’errore non sta nei giornali ma in chi non sa collaborare intelligentemente con essi.

La migliore risorsa civica di Chicago sta nei suoi grandi quotidiani. Che tutti, senza alcuna eccezione – quelli di parte e quelli non di parte – si uniscono nel levare le proprie voci per migliorare la città. Sono la spinta iniziale a qualunque progresso cittadino e parlano delle cose più utili per il bene della comunità. Quando il Presidente della Chicago Plan Commission dichiarava «Il Piano si fa insieme ai cittadini» immediatamente sorgeva la questione «Ma come farlo?». La Commissione aveva risorse limitate. Naturalmente si sarebbe dovuto raccogliere molto denaro. Stabilito quello come primo obiettivo i componenti del Commercial Club (cento in tutto) furono i primi ad essere interpellati. In poche settimane si raccolsero centomila dollari da questi cittadini dotati di spirito pubblico. Erano disponibili a mettere a disposizione il proprio denaro per realizzare il Piano che avevano collaborato a concepire. Questo piccolo gruppo di uomini d’affari aveva già contribuito con ottantacinquemila dollari per studi tecnici, servizi di supporto e pubblicazione del Piano. Che consisteva in un magnifico volume in ottavo, splendido esempio di arte tipografica.

164 pagine e 134 illustrazioni di vario tipo, tra cui 15 tavole a colori a tutta pagina coi dipinti del noto artista Jules Guèrin. Altre grandi tavole colorate, illustrazioni di formato minore, più un elenco di 154 temi. Imponente e suggestivo, scritto con ottimo linguaggio e terminologie tecniche, il libro esponeva le linee del Piano e le sue raccomandazioni. Fu immediatamente accolto con favore dagli esperti di tutto il mondo, come il migliore e più completo studio urbanistico che mai fosse stato prodotto. Si capì presto, però, che per attuarlo si poteva procedere esclusivamente un progetto per volta, un obiettivo dopo l’altro. Contemporaneamente appariva ovvio che un’opera editoriale di quelle dimensioni — nonostante l’importante contributo per le biblioteche nazionali e gli archivi municipali — risultava del tutto inadeguata al lavoro di promozione popolare. Il prezzo proibitivo — venticinque dollari a volume — e una stampa limitata a sole duemila copie. Nell’intervallo di oltre un anno dalla presentazione del lavoro alle autorità cittadine a cui veniva simbolicamente donato, e la nomina della Chicago Plan Commission, a cui veniva conferito il lavoro di ulteriore studio e promozione, moltissimi giornali e riviste di tutto il Paese pubblicarono estratti del piano. A cui si aggiungevano contributi a tutta pagina o anche di più pagine sui quotidiani di Chicago.

Venne poi un periodo di stasi, e la reazione. Si parlavo poco e sporadicamente, giusto con qualche citazione, del Piano, e iniziavano a farsi sentire invece agitatori e oppositori dell’idea ispiratrice, esprimendo anche derisione. I tratti più utopici – gli aspetti ideali i cui benefici effettivi si sarebbero potuti vedere a distanza di molti anni — di opere la cui realizzazione sarebbe stata rinviata ad un remoto futuro venivano scelti accuratamente per essere attaccati. In breve, emersero tutti i malumori divergenze e malcontento, fino a mettere in pericolo l’intero Piano — già necessitante di evoluzioni e precisazioni — che rischiava di finire in mille pezzi, e comunque di ricevere un duro colpo su questo muro di dissenso e malintesi. Pericoli che ci sono per qualunque piano degno di quel nome nella sua prima fase. Ma trattandosi di un progetto solido e nell’interesse di tutti i cittadini era anche in grado di superare queste tempeste. Il Piano per Chicago sopravvive.

Lo si chiamava «Chicago Beautiful» prima della denominazione più pratica adottata ufficialmente di «The Plan of Chicago». Ma quel Beautiful si era conquistato visibilità e contemporaneamente attirato parecchi equivoci. Tutto si aggiungeva alle difficoltà da superare per la Commissione. Tutti gli oppositori del Piano preso si coagularono attorno a quella parola «beautiful» per scagliare contro l’idea generale stessa ogni genere di acuminata critica: «Sarà anche Magnifico ma non certo Pratico». Stupisce davvero quanti danni si possano fare scegliendo semplicemente un termine sfortunato. Genera dubbi, confusione, distorsioni. Pareva che soltanto l’intervento della Divina Provvidenza potesse ormai colmare quello che nell’opinione pubblica era ormai l’abisso scavato tra gli ideali del Piano e il suo avanzamento concreto nel correggere il disordine materiale attuale della città. Avvertendo tutto questo i suoi nemici insistevano nel definirlo Un Sogno ad Occhi Aperti, oppure Un Bel Disegno oppure ancora Tante Chiacchiere.

Da qui parte il lavoro della Commissione del Piano. Saggiamente determinata a far sì che l’idea fosse «mostrata» ai cittadini con un progetto tangibile focalizzato su un quartiere con tantissimi problemi. Fu scelta la Dodicesima Strada, attraverso la zona più sovraffollata della fascia occidentale. Una arteria di grande traffico che taglia aree industriali e ferroviarie, oltre che quartieri di popolazione soprattuto immigrata, case, negozi, ma che sostanzialmente è soprattutto una delle strade più importanti di Chicago non a caso di grande significato dentro il Piano. Ma sono in tantissimi coloro che abitando altrove in città restano a malapena consapevoli della sua esistenza, figuriamoci capirne l’importanza, in un senso o nell’altro. Per farla breve fu deciso di riportarla in primo piano. Un anno dopo che la Plan Commission aveva iniziato la propria opera didattico-pedagogica, quando gli oppositori pregiudiziali si trovavano all’apice della visibilità, il Consiglio deliberò l’emissione di titoli per finanziare un progetto di trasformazione, ordinanza poi confermata da referendum cittadino con ventunmila voti di scarto.

Un’ordinanza che faceva uscire dal caos, ma era in realtà il risultato di una campagna promozionale ampia e ben studiata. Il cui primo passo era stato un opuscolo. Stampato in 165.000 copie e distribuito con un costo complessivo di 18.000 dollari. Destinatari tutti i proprietari di un immobile della città, e tutti coloro che pagavano un affitto superiore a 25 dollari al mese. Alla base di quel volumetto c’era l’edizione deluxe del Chicago Plan edita dal Commercial Club. Moltissime delle illustrazioni erano semplici adattamenti in piccolo di quel grande volume originale. L’opuscolo era intitolato: Chicago’s Greatest Issue — An Official Plan. In quelle novantatre pagine, sottoscritte dai 328 membri dei componenti la Commissione, riassuntivi di ogni fascia della cittadinanza, si raccontava la vicenda del Plan of Chicago a tutti, in un linguaggio semplice e comprensibile.

Si ribadiva in primo luogo che la città appartiene a tutti, che lo spazio e gli immobili di proprietà pubblica si valutano in 420.000.000 di dollari, e ciò per chiarire anche all’uomo della strada quale sia la sua responsabilità anche economica personale per il bene della collettività. Poi veniva la costruzione del Piano, tema dopo tema, capitolo dopo capitolo, esponendo a tutti razionalità e criteri del progetto. Un colpo bene assestato rimbalza spesso in un altro di pari efficacia, e così sui giornali di Chicago iniziarono a comparire articoli dedicati all’opuscolo, aggiungendosi copiosamente alla campagna promozionale. L’attenzione della stampa dà da sola la misura dell’efficacia dell’opuscolo, ed era egualmente diffusa. Chicago’s Greatest Issue veniva anche spedito a richiesta nei principali Paesi del mondo civile. Altri progetti rapidamente si aggiungevano nella scia del primo per la trasformazione della Dodicesima Strada, e la campagna pubblicitaria teneva il passo anzi anticipava. Di incalcolabile valore per l’opinione sul progetto della Dodicesima Strada fu il libro per le scuole, il Wacker’s Manual of the Plan of Chicago. Che nasceva direttamente dall’ammonimento iniziale a «Costruire il Piano con la gente».

L’idea specifica di un libro per le scuole in realtà si concentrava sulle prime tre parole «Costruire il Piano». Focalizzare come chiave di riuscita è cosa che vale per molte cose, ma ancora più valore ha la qualità dell’idea su cui focalizzarsi. Le idee di promozione dell’urbanistica sono di massimo valore e val la pena sempre di di rifletterci molto bene. Ma in questo caso la riflessione era già stata fatta dalla fertile mente del Presidente della Commissione: «Costruire il Piano». Ho sempre pensato che la cosa principale sia proprio la fonte di quell’idea. Ecco perché il libro scolastico di cui sono autore è stato intitolato Wacker’s Manual dal nome del presidente. In quell’occasione compresi che se si doveva attribuire al Presidente l’idea del Piano lo stesso valeva per la sua promozione. Mi appariva chiaro che i cittadini — tutti i cittadini — dovessero arrivare a comprendere nel profondo la persona che aveva avuto nelle proprie mani tanta parte del destino della città. E che una diffusa conoscenza del Piano dovesse andare mano per mano con quella del suo Ideatore.

Studiare questo libro dovrebbe portare a tre risultati; costruire consenso e conoscenza degli ideatori del Piano di Chicago attraverso i loro figli usati come strumento di comunicazione; formazione dei cittadini del futuro perché divengano responsabili delle decisioni; attuazione negli anni futuri del Piano attraverso una cittadinanza acculturata. Il libro per le scuole fu adottato dal Chicago Board of Education nel 1912: un intero anno scolastico prima che il primo progetto attribuibile al medesimo Piano fosse proposto all’approvazione pubblica. Fu il primo passo di un organismo di dirigenza scolastica americano nell’introdurre tra i testi di studio correnti la materia urbanistica e i doveri del cittadino verso questa importante materia, anche se nei college europei e in alcuni istituti superiori il tema era studiato da oltre trent’anni. E questo senza dubbio pesa nelle magnifiche realizzazioni di tante città oltre Atlantico avvenute attraverso piani scientifici.

La prima edizione del Wacker’s Manual venne stampata in quindicimila copie. Venne adottata come integrante nei programmi di studi della terza media. In questo le autorità scolastiche seguivano le indicazioni del comitato del Piano, dell’idea secondo cui tanta parte degli studenti pur arrivando a completare quel ciclo, poi non entra nei gradi superiori, per scelta o necessità entrando direttamente nel mercato del lavoro. Si riteneva anche che avesse valore rivolgersi ai più giovani nel periodo di maggiore ricettività, e il testo non copriva altri temi di insegnamento, proposto nella forma di geografia descrittiva con le illustrazioni tratte dalla pubblicazione originale del Piano fatta dal Commercial Club. A cui si accompagnavano innumerevoli altre della Chicago di ieri di oggi e di domani. Nell’introduzione si spiegava che : «Chicago è destinata a diventare il centro del mondo moderno se se ne sfruttano adeguatamente e intelligentemente le potenzialità e se la città attira una quantità sufficiente di cittadini formati e illuminati». Da qui l’appello a studenti e insegnanti pensando che:

  • È importante sviluppare il senso di cittadinanza, qualcosa che pare spontaneo in ciascun ragazzo o ragazza, che si esprime in tutta la vita con le azioni patriottiche, affiancando il legame con la città;
  • Occorre dedicarsi e appassionarsi al bene della città. Un nuovo sentimento di patriottismo urbano — frutto della condizione di esistenza moderna — che prende la forma di orgoglio e consapevolezza della propria città natale o di quella a cui si va ad appartenere facendone la propria casa.

Educatori e leader pubblici moderni, notando il nascere e crescere dell’impulso patriottico urbano, lo considerano una importante risorsa per il bene futuro del paese. Lo vedono nell’aspirazione a un buon governo; capiscono anche che promuovere e coltivare questo impulso possa avere effetti di lungo periodo di rafforzamento delle nostre istituzioni, allargando approfondendo e intensificando il patriottismo nazionale.

Emerge quindi la necessità di suscitare nei figli delle nostre città un più vivo acuto penetrante interesse nella loro storia, nel loro sviluppo, presenti e futuri. Il fatto che tanti milioni di persone abitino oggi nelle città, e che esse continuano a crescere, significa n assoluto che saranno esse a definire il destino del paese. Nelle città si forma la politica della nazione. L’impulso a un buon ordine, salute, morale, economia di governo, deve derivare dalla formazione sin dal periodo scolastico, se vogliamo che il paese prosegua nel suo ruolo storico di civiltà. L’introduzione al volume si concludeva affermando che:

«Pare conseguente che alla fine di ciascun capitolo vengano poste alcune domande per stimolare lo studente al tema non facile. Nella ricerca delle risposte il ragazzo proverà a sedimentare nella propria mente uno stabile interesse al benessere civico di Chicago, con straordinari vantaggi per il futuro della città. È stata data anche enfasi adeguata alla storia passata delle grandi città del mondo e ai motivi che le hanno fatte diventare potenti. È impegno dell’Autore, di far avvertire allo studente che su di lui pesa la responsabilità di contribuire alla futura grandezza di Chicago».

Al termine del primo ciclo di studi si tenne una interessante discussione tra le autorità scolastiche sui metodi domanda/risposta utilizzati. Alcuni docenti protendevano per cambiamenti di merito, altri di metodo induttivo di insegnamento, ma si concluse che i pro e i contro dei tre metodi rendevano queste modifiche un dilemma del tutto accademico. Da un panorama delle opinioni dei docenti e presidi emergeva soverchiante maggioranza favorevole a proseguire nell’uso del sistema a test domanda/risposta. Non era facile illustrare il Piano di Chicago in un linguaggio abbastanza semplice da essere compreso a tredici anni, e il testo era considerato da alcuni «al di sopra delle possibilità dei ragazzi». Di diverso parere la dirigenza scolastica che si esprimeva con: «Meglio aumentare il livello degli studenti allo standard dell’autore che restare a quello inferiore limitato dei loro concetti».

Lo studio del Piano di Chicago nelle scuole sta riuscendo nei propri scopi ben oltre le migliori speranze dell’autore e di tutti gli interessati al successo dell’iniziativa. Molti insegnanti osservano come gli studenti considerino la materia quella più affascinante e chiedano di ampliarla. Docenti e presidi più progressisti si impegnano per insegnare così come si impegnano per la città. Ed è un interesse che si rispecchia in quello degli studenti. Si manifesta nelle scuole di tutta Chicago attraverso mostre di disegni, temi in materia, conferenze, e altre interessanti iniziative di ogni natura. Mi è capitato di sentire dodici ragazzi di origine straniera per l’occasione del Commencement Day, in una scuola dove ci sono iscritti di quattordici nazionalità diverse nella zona del Ghetto, recitare brani di tre minuti dedicati al Piano, e che mi sono sembrati i migliori discorsi sul tema mai ascoltati in vita mia, compresi quelli degli esperti. E pensiamo quanto orgoglio abbiano provato i genitori presenti di quei ragazzi. Il pensiero ci rafforza nella certezza che il Piano di Chicago non potrà mai essere abbandonato, che proseguirà sino all’attuazione spinto da coloro che oggi sono studenti nelle scuole. Grazie anche alle Associazioni dei dirigenti scolastici, fantastiche sostenitrici del progetto. Tutti noi della Commissione siamo loro grati per aver contribuito a saldare questo patto di impegno civico attraverso riunioni, appelli, pubblicazioni del Piano e giri della città in automobile mentre il progetto veniva sviluppato dagli studi.

Sono state stampate oltre cinquantamila copie del Wacker’s Manual per le necessità attuali delle scuole. Ha ricevuto recensioni sulla stampa di settore scolastico di molti paesi. Ne sono state richieste copie da ogni città importante del paese. Tre di queste città hanno già adottato testi analoghi. In un caso, cioè a Boston, sono state ordinate centinaia di copie del Manuale. Cogliendo quanto siano interdipendenti le città americane, la Commissione del Piano ha accolto con piacere la domanda. Ma la soddisfazione principale sta nel constatare quanto si stia diffondendo ovunque l’idea che in urbanistica il buon giorno si vede dal mattino [«As the twig is bent, the tree inclineth» citazione da Alexander Pope 1732 intraducibile alla lettera n.d.t.]. È stato piantato il seme della conoscenza nella prossima generazione. Si coltiva spirito civico tra i più giovani e dunque nel futuro. Quando i ragazzi e le ragazze a cui oggi viene elargita istruzione sulle responsabilità dell’essere cittadini e i vantaggi dell’urbanistica diventeranno adulti, e si faranno carico di quella responsabilità, le trasformazioni urbane potranno sostenersi su un vero e proprio esercito di consapevoli esperti di virtù civica. Come ben ricordava Mr. Wacker nella sua relazione alla National City Planning Conference:

«Per riuscire in urbanistica, alle capacità dello studioso e del progettista si devono affiancare la conoscenza, e la persistenza, e l’energia promozionale che è in grado di esprimere una città, prima di compiere qualunque significativo passo verso l’attuazione. In Europa l’architetto-urbanista ha alle proprie spalle tutta la forza del governo locale. In America è solo, e senza l’impegno promozionale con cui i cittadini possono sostenere le sue idee, non si può realizzare nessun piano. Serve entusiasmo. E non contano i meriti e le qualità del piano, quanto l’entusiasmo di cui sono capaci i suoi promotori nello spingere all’adozione. Chi non avverte quell’entusiasmo dovrebbe seguire il consiglio di chi a suo tempo invitava a «Uscire e strofinarsi contro qualcuno che ce l’ha». Altro aspetto indispensabile è l’ottimismo. Sono mai riusciti i pessimisti a costruire davvero qualcosa? Sarebbe un segno di forza il fatto di dubitare delle proprie capacità e responsabilità? È l’ottimista, colui che dà impulso alle proprie azioni, a quelle della propria professione, a quelle della comunità».

A dimostrare il fatto che le nostre lezioni di temperanza urbanistica non fossero, per così dire, impartite da una banda di ubriaconi da osteria, provammo da soli a ripeterci le nostre massime: dopo il libro per le scuole arrivarono i cicli di conferenze. Ripensavamo con perplessità e anche un po’ di vergogna ai nostri tentativi di presentare il Piano di Chicago con l’aiuto di uno steretoscopio. Si fece una ricerca approfondita sui materiali che potevano adeguarsi ai nostri scopi. Fatica inutile e senza alcun risultato. Le città americane non potevano contribuire in alcun modo né in teoria né in pratica. Tante di quelle europee, ricche dell’una e dell’altra, non erano però adeguate a una interpretazione per i nostri fini. Spazi antichi confondevano problemi moderni, e così ci mettemmo letteralmente al lavoro «di pinza e martello» per costruire sulla base della nostra esperienza presentazioni soddisfacenti. All’inizio con difficoltà, ma poi si riuscì a organizzare una comunicazione divulgativa di un’ora e mezza su oltre duecento immagini, da ventiquattro paesi del mondo, che secondo la critica sta comunque all’altezza delle migliori presentazioni professionali di oggi.

La principale difficoltà resta comunicare senza ricorrere a termini specializzati e disegni tecnici, mantenendo l’attenzione, senza però rinunciare al punto centrale e scopo del piano. Per quanto riguarda il materiali di base fu un lungo processo di raccolta e cernita, peraltro piuttosto costoso. Capimmo in fretta che valeva la pena di usare le cose migliori. Imparavamo via via adattando di conseguenza. Un’esperienza modulata per cicli o fasi, la prima delle quali potrebbe essere incontrare un problema del genere: alla fine di una delle prime conferenze con presentazioni si presenta un brillante oratore che fa spesso uso della medesima tecnica dello steretoscopio e dice «La conferenza è interessantissima ma la presentazione e le immagini sono tremende mai visto nulla di peggiore». Ne segue il giorno successivo una consultazione coi migliori artisti cittadini del settore. Sono parecchi gli specializzati in lastre da conferenza, ma pochi davvero bravi, si tratta davvero di arte non di artigianato della miniatura. Per fortuna troviamo l’illustratore di una serie di viaggi, che ci costa il triplo di quanto preventivato (e già credevamo di aver investito tanto e nel meglio). Ma ne vale la pena.

Poi per migliorare ancora le cose, scriviamo a tutti i Consolati americani nelle principali città del mondo civile, chiedendo che ci facciano avere i nominativi dei migliori fotografi locali. Prende un po’ di tempo, ma alla fine ci ricompensa con la raccolta di un prezioso portfolio di immagini delle migliori trasformazioni urbane del mondo, così che a partire da una prima serie di oltre duemila diapositive, alla fine riusciamo a scendere sino a duecento riassuntive, adeguate ai tempi della conferenza, e il meglio assoluto dal punto di vista grafico. Ma entrava in campo un’altra complicazione. Fu a un incontro al centro congressi delle nuove scuole pubbliche: millecinquecento presenti e concerto musicale dell’orchestra scolastica e Glee Club.

Dirigeva il tutto una anziana claudicante signora irlandese, saggia ma molto diretta. Dopo la conferenza il relatore, notando la difficoltà a muoversi, le offrì di accompagnarla a casa in automobile. E per strada osò: «Posso chiederle qualcosa a rischio di essere frainteso?». «Non saprei – rispose la signora – Deciderò dopo aver ascoltato». «Se risponde con uguale franchezza alla domanda come ha fatto con la premessa, qualunque cosa sarà comunque preziosissima». «Beh me la faccia allora questa benedetta domanda e magari ci cavilliamo più tardi». La domanda suonava semplicemente: «Le è piaciuta la conferenza?». La signora replicò: «Certo se mi avesse chiesto un’opinione sui contenuti o sulle reazioni del pubblico avrei potuto rispondere più precisamente» cominciò cauta. Allora lui capito il senso provò a metterla in un altro modo: «Cosa c’era di sbagliato?». Lei rispose «L’ho apprezzata, ma ho anche notato come il pubblico diventava sempre più impaziente, molto prima che la comunicazione terminasse; troppe informazioni tecniche, troppi particolari su questioni poco importanti. Che magari possono apparire rilevanti a qualcuno addentro al problema, ma non lo sono affatto per il cittadino medio. Lui non si interessa a come vengono sistemate le superfici stradali una volta finiti i lavori e cose del genere. Fate delle conferenze interessanti per le masse. Potete solo sperare, come migliore esito possibile, di comunicare lo spirito del Piano. E non ci si riesce con quelle cose aridamente tecniche. Tra l’altro la gente ascolta conferenze di ogni genere ogni settimana su qualsiasi argomento in questi incontri al centro congressi, con un atteggiamento più o meno critico e informato sui vari temi. Bisogna adottare uno stile più popolare, piano, e poi ….». L’interlocutore la fermò qui: «Basta basta, ho capito, moltissime grazie, proprio quello che volevo sentire, non capita spesso di ascoltare critiche onestamente costruttive».

La fase successiva fu una revisione di fatto ciclica e continua di perfezionamento della conferenza, dove entravano via via tutti gli stimoli della sperimentazione sul campo. Importantissimo il contributo delle scuole, al lavoro di divulgazione. Il Board of Education ci mise a disposizione le sale convegni a titolo totalmente gratuito. Gli edifici di costruzione più recente sono tutti dotati di magnifiche sale attrezzate di grande capacità, da cinquecento a duemila posti a sedere. Quelli più vecchi, anche se ovviamente meno attrezzati, hanno comunque spazi in grado di ospitare da duecentocinquanta a quattrocento persone. In totale sono cento cinquanta quelle sale da assemblea nelle scuole pubbliche. Luoghi di incontro nei quartieri, sparsi per tutta la città, grade vantaggio per qualsiasi campagna basata sulle conferenze.

L’obiettivo era di attirare le persone ad ascoltare queste presentazioni del Piano di Chicago nelle scuole. Si scartò in quanto impraticabile l’invito ai genitori attraverso gli studenti, perché il metodo non appariva né sufficientemente personalizzato né generalizzabile come messaggio. D’altra parte si trattava di raggiungere il maggior numero possibile di adulti, che fossero o meno genitori di studenti iscritti a quelle scuole. Alla fine si arrivò a un metodo un po’ costoso ma efficace. Calcolata la capacità della sala conferenze dove si doveva tenere la presentazione, si incaricava una ditta specializzata di compilare buste personalizzate con inviti, in quantità doppia rispetto al potenziale pubblico, scegliendo tra gli indirizzi del territorio in un certo raggio dalla scuola. Ogni busta indirizzata e timbrata, conteneva un invito illustrato e due biglietti di ingresso gratuiti. Il corpo del testo illustrato fu stampato subito in centinaia di migliaia di copie, e man mano si preparava una nuova conferenza la ditta incaricata aggiungeva a stampa un invito «originale personalizzato» alla specifica occasione.

Non si esagera mai il valore e l’importanza di non apparire stereotipati. E il metodo degli inviti non mancava mai di riempire le sale al limite della capacità. In una sola stagione invernale furono tenute novanta presentazioni nelle scuole. Scelte in modo da coprire abbastanza omogeneamente tutta la città. Le comunicazioni erano tenute dai tre esponenti della Commissione. Si capì che era importante far proporre il Piano solo da chi lo conosceva molto bene sin nei più minuti dettagli, così che non si creasse il rischio di equivoci o distorsioni da parte di chi non aveva familiarità col lavoro. Gli inviti illustrati — pieghevoli di tre pagine — erano concepiti nello stile della pubblicità commerciale a pagamento o propaganda. Contenevano, oltre a immagini scelte tra le più suggestive, una panoramica delle città oggetto della presentazione stereoscopica, qualche riflessione del presidente sull’urbanistica, auspici a una città migliore per tutti, un quadro dei problemi aperti, una scheda dell’Autore del Piano e cosa ci si aspettava dai cittadini per l’attuazione.

Nel corso di una singola stagione vennero inviate ai cittadini centocinquantamila copie di questo invito circostanziato e illustrato. Distribuendo così anche aspetti importanti del Piano stesso, preziosi anche con chi non partecipava poi alle presentazioni. Nei sette anni di attività della Commissione, le conferenze tenute sono state quasi quattrocento. Metà tenute su invito di ogni genere di enti e associazioni: chiese, club, unioni sindacali o femminili, enti con scopi sociali, commerciali, rappresentanti di interessi, scuole particolari. Il messaggio del Piano è stato recapitato direttamente a 175.000 persone: un cittadino di Chicago su quattordici. E i quattro grandi strumenti di comunicazione del Piano – l’opuscolo riassuntivo, Chicago’s Greatest Issue, il libro per le scuole, la serie di conferenze – avevano ulteriori ramificazioni. Tra cui spicca l’efficace la campagna cinematografica, due tempi dal titolo A Tale of One City. A confrontare lo stato attuale, il progetto di piano, a immagini di vita cittadina e interesse.

Difficile mescolare in un film immagini fisse e in movimento, ma alla fine il lavoro è risultato comunicativo e soddisfacente. Le proiezioni sono avvenute in oltre sessanta sale della città, per un pubblico calcolabile in oltre centocinquantamila spettatori. La settimana inaugurale si tenne nell’imponente Majestic Theater e alla serata di apertura il pubblico, che stipava la sala al massimo delle capacità, era degno delle grandi occasioni da prima dell’opera. Seguirono tante altre città che volevano avere il privilegio di proiettare A Tale of One City. Poi ci sono altre pubblicazioni specifiche prodotte dalla Commissione, riguardanti i vari progetti in cui si attua il grande Piano, e che richiedono via via descrizioni più dettagliate man mano iniziano le trasformazioni. Particolarmente degna di nota anche una pubblicazione di grande formato e ottima qualità, con illustrazioni, uscita in corrispondenza dell’inizio delle trattativa tra città e compagnie ferroviarie per il terminal occidentale, per un progetto del valore di 65 milioni di dollari. Altro opuscolo notevole era quello intitolato Fifty Million Dollars for Nothing. Dimostrava ai cittadini di Chicago come fosse possibile realizzare centinaia di ettari di parchi, campi da gioco e corsi d’acqua sul Lake Front, utilizzando materiali di scarto come terra da escavazioni, macerie, polveri e ceneri da pulizie urbane. Spiegando come così agendo la città avrebbe potuto in dodici anni avere a disposizione superfici pronte per la trasformazione del valore di cinquanta milioni di dollari, senza alcun carico sul contribuente.

Ma il rapporto particolare più importante pubblicato dalla commissione è senza dubbio quello sulla riqualificazione di South Water Street. Sede del mercato ortofrutticolo cittadino, che di fatto coinvolge completamente l’arteria, coi suoi fondamentali flussi di traffico che smaltiscono dal centro congestionato. Si tratta di degrado composito, di rischio sanitario, di diseconomia, e tutto insieme a un tiro di sasso da uno dei quartieri commerciali principali del mondo. La commissione del piano nel suo opuscolo dedicato spiega come si possa eliminare il problema, risparmiando alla collettività ogni anno, tra costi di movimento merci, agevolazione del traffico, accresciuti introiti cittadini e altro, l’enorme somma di cinque milioni di dollari: basta questo anno di risparmio a giustificare l’intervento. Molti altri opuscoli speciali e altri documenti vennero pubblicati, ma vogliamo qui ricordare la pubblicazione tutta interna non rivolta al pubblico e intitolata Chicago’s Worldvide Influence in City Planning.

Prodotta allo scopo non tanto di «convertire alla propria religione» ma di «tenere viva la fiamma» e la fede nel Piano tra chi lo aveva promosso anche in tutto il mondo. Si trattava di un collage di commenti e domande alla letteratura divulgativa sul Piano di Chicago, da centinaia di esperti, tecnici, amministratori, cittadini impegnati, da tutto il mondo. Dopo la firma dell’armistizio della Grande Guerra e l’annuncio da parte della Commissione di una Reconstruction Platform, salutata a tutta pagina dei giornali di Chicago, si chiese ai religiosi della città di di rivolgersi ai fedeli dai propri pulpiti parlando dei benefici umanitari del Piano. Ne nacque Seed Thoughts for Sermons — raccolta di temi umani e sociali dalle varie pubblicazioni divulgative precedenti – a decantare l’armonia tra il ruolo sociale delle chiese e i vantaggi dell’urbanistica. Il documento fu mandato insieme alla «Reconstruction Platform» a tutti i religiosi della città.

La letteratura del Chicago Plan è spedita su richiesta a oltre cento città degli Stati Uniti e in altre trentasei di tredici diverse nazioni. Una campagna promozionale urbanistica enorme, di largo raggio, efficace ed ispiratrice. Indica la strada a chi inizia ad operare sulla città in America, gli mostra come e perché dovrà concentrarsi su alcuni aspetti essenziali del proprio lavoro. Dimostra che queste basi fondamentali con cui confrontarsi sono sostanzialmente tre: l’idea di concezione, la costruzione del progetto, la promozione del processo. E prima ancora della concezione sta l’ispirazione a costituire la spinta iniziale. Torna la raccomandazione [ovvero il classico monito di Daniel H. Burnham qui non menzionato n.d.t.] a rimescolare il sangue nei cuori e ispirare le menti al desiderio di una città, frutto di una ben concepita urbanistica. Infine spinge a risvegliare tra i cittadini alla necessità di un piano, alla consapevolezza del bisogno di agire. Questioni essenziali da affrontare in prima istanza quando si pensa alla trasformazione della città.

da: What of the City? McClurg & Co. Chicago 1919 – Titolo originale del capitolo: Publicity – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini – Il ritratto di Walter Dwight Moody con la breve (quasi illeggibile) scheda biografica è tratto da «Notable Men of Illinois & Their State», 1912, The Chicago Daily Journal

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