Usciamo in modo equo dalla filiera dell’allevamento

Foto F. Bottini

C’è una rivoluzione in corso nell’agricoltura di tutto il mondo. Dall’Indonesia al Messico, le attività di allevamento animale si riconvertono a colture creando posti di lavoro più qualificati e remunerativi. I contadini trasformano porcili in fungaie, sostituiscono canapa ai polli, fanno crescere cereali dove un tempo pascolavano vacche da latte. E non solo la transizione crea posti di lavoro pagati meglio, ma riduce anche le emissioni caratteristiche degli allevamenti. Crescono risorse e servizi a disposizione di chi si impegna in questa riconversione. Grazie agli orientamenti delle politiche pubbliche i contadini riescono a individuare diversi sbocchi di mercato per le proprie colture, allontanandosi dalle pratiche di allevamento con alcune certezze economiche. Cresce velocemente la domanda per tante produzioni agricole, parallelamente a questa uscita dall’allevamento animale, che intrappolava tanti operatori dentro contratti capestro, condizioni di lavoro miserabili, bassi salari e rese, forte vulnerabilità alle dinamiche di mercato, stress estremo.

Per un lavoro più sano

L’allevamento agroindustriale è una attività pericolosa che mette a rischio la salute umana e psicologica. Incidenti sul lavoro, malattie, traumi, interessano i singoli operatori e hanno effetti devastanti sulle famiglie e le comunità locali. Solo per fare un esempio pensiamo alle influenze aviarie e suine, che ogni anno minacciano di diventare epidemie, minacciando la salute degli allevatori. La Polonia, maggior produttore di polli in Europa, ha sperimentato la peggiore influenza aviaria a metà 2021, con milioni di uccelli abbattuti per arrestare l’espansione della malattia. Solo pochi mesi più tardi ecco di nuovo l’influenza aviara riesplodere tra Asia ed Europa. Ancora abbattimenti potenziali di milioni di capi, enormi richieste di risarcimenti ai governi, tanti allevatori senza possibilità di recuperare il reddito perduto. Molti allevamenti non si riprenderanno più. E gli allevatori non sono certo i soli a soffrire sulla filiera alimentare. Tra i posti di lavoro peggiori ci sono quelli nel settore lavorazione carni, quotidiani incidenti di amputazioni, ustioni, ferite al capo, traumi psicologici.

Alcuni impianti di lavorazione della carne sono stati tenuti in attività anche nelle fasi più rischiose della pandemia coronavirus (COVID-19), diffondendo il virus e provocando vittime che si sarebbero potute evitare. Negli Stati Uniti, si calcola che sino al 4% dei decessi da COVID-19 al luglio 2020 erano collegati alle lavorazioni di carni bovine e pollame. Molti dei lavoratori degli impianti appartenevano a minoranze razziali, già colpite da altre disparità socioeconomiche, esasperate dalla diffusione del virus. Quasi la metà dei lavoratori del settore negli USA vengono classificati a basso reddito, l’80% di colore, il 52% immigrati. Parecchi senza documenti senza accesso ai servizi sanitari e previdenziali. Anche in Europa il settore lavorazione carni dipende largamente dal lavoro immigrato o frontaliero, con condizioni abitative e di lavoro piuttosto deplorevoli.

Un sistema alimentare più attento alle questioni climatiche

Oltre a creare posti di lavoro più sani e sicuri, il processo di transizione dall’allevamento agroindustriale dà la possibilità agli operatori di tutelare il clima e il territorio su cui lavorano. Si calcola che il settore allevamento possa raggiungere l’81% nel calcolo di emissioni del bilancio 2050 su un riscaldamento di 1,5 gradi, se non si interviene. Due terzi della produzione globale di animali appartiene a questo comparto dell’agroindustria, mette gravemente in pericolo gli ecosistemi planetari, spreca risorse naturali, alimentari, minaccia la salute umana e il benessere degli animali. Le ricerche ci mostrano come per rimanere dentro a limiti di equilibrio ambientale la produzione alimentare globale legata all’allevamento debba essere ridotta almeno della metà. Gli allevamenti pesano sul cambiamento climatico, e il cambiamento climatico pesa sulla produzione da allevamenti, diventando un ulteriore rischio per gli operatori. Crolla la qualità delle colture da foraggio, diminuisce la disponibilità di acqua, si danneggia la produzione di latte. Il cambiamento climatico incrementa il pericolo di malattie tra gli animali, riduce i tassi di riproduzione, esaspera il crollo di biodiversità. Si calcola complessivamente un calo del 7-10% di animali, con l’aumento delle temperature, e perdite economiche tra dieci e quasi tredici miliardi di dollari, solo a causa del cambiamento climatico.

Enorme potenziale per l’occupazione

Riconvertirsi a economie ambientalmente e socialmente sostenibili crea nuovi migliori posti di lavoro, riduce la povertà, aumenta la giustizia sociale, ci dice l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Si stima che una transizione energetica equa possa creare entro il 2030 fino a 24-25 milioni di nuovi posti di lavoro contro i 6-7 che andrebbero comunque perduti. E probabilmente la medesima cosa vale per la transizione negli allevamenti. Andare verso un sistema alimentare basato sulle colture creerebbe 19 milioni di posti in America Latina e nei Caraibi al 2030, avverte una ricerca. Ciò vuol dire che per esempio nei soli allevamenti tradizionali si perderebbero 4,3 milioni di posti, ma la trasformazione ne creerebbe 15 milioni. Rivitalizzando le economie rurali e contenendo gli effetti negativi dell’urbanizzazione. E nell’insieme questa produzione alimentare vegetale sarebbe più sicura, sana, con meno disparità di genere, a rafforzare le economie delle campagne e con migliori servizi pubblici.

Verso la Transizione

Già possiamo vedere esempi di alcune avanguardie della transizione equa dall’allevamento. In Danimarca, per esempio, si è deciso di dimezzare le emissioni dell’agricoltura entro il 2030 nel quadro di un ambizioso piano per ridurre del 70% i gas serra. Il governo mette a disposizione novanta milioni di dollari per cinque anni a chi produce da colture e si è impegnato a creare un fondo da 11,7 milioni a sostegno della transizione dall’allevamento. Esiste comunque una questione politica ineludibile. Se ridurre la produzione da allevamenti agroindustriali pare il modo più efficace per raggiungere gli obiettivi climatici, il programma danese non cita esplicitamente la questione animali. E ciò nonostante una recente ricerca rilevi come i costi della transizione danese possano essere «del tutto gestibili» con ottimi vantaggi sia per il clima che per il sistema sanitario.

Nel dicembre 2021, il governo olandese ha preso una decisione senza precedenti nel destinare 25 miliardi di euro al taglio per il 30% degli allevamenti di bestiame, ad arginare una sovrapproduzione di azoto. In 13 anni, i contadini dovranno o trasferire l’attività, uscire dal settore, oppure chiedere sostegni nella transizione verso diversi più sostenibili metodi di produzione alimentare. Lodevole ambizione quella di perseguire obiettivi climatici e ambientali, rispettando tutti i principi attuativi verso una transizione equa. Le politiche saranno sostenute da altre scelte sui consumi con meno emissioni, interessando l’intera filiera.

Ricerca scientifica e dati economici insieme indicano chiaramente che non si può continuare col business as usual. Più si aspetta, più difficile diventerà sostenere questa transizione equa senza lasciarci indietro nessuno. Per farlo sono necessarie azioni politiche ambiziose ad ogi livello. Le decisioni dei prossimi anni avranno effetti su generazioni di contadini e operatori a livello globale con impatti irreversibili sul pianeta. Abbiamo l’occasione di salvaguardare il clima tutelando le persone impegnate a produrre ciò che mangiamo, ed esiste una soluzione valida sia per l’ambiente che per l’economia: la transizione equa dal sistema degli allevamenti.

da: Down to Earth, 27 dicembre 2021 – Titolo originale: Transforming lives: The job creation potential of a just livestock transition – Traduzione di Fabrizio Bottini

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