Come mettere il sale sulla coda allo sprawl

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Foto M. B. Style

Ci sono qualità apparentemente quasi ovvie in un insediamento umano sul territorio che ne dovrebbero caratterizzare abitabilità, efficienza, o sostenibilità come si dice oggi. Ad esempio il fatto di mettere in comunicazione fisica e non persone e luoghi diversi. È il motivo per cui in qualche modo e misura deve essere facile relazionare funzioni, favorire spostamenti, articolarli secondo varie possibilità, farli pesare poco sia sul portafoglio individuale e collettivo che su quello virtuale delle risorse che consumano. Proprio quest’ultimo aspetto, delle risorse finite o comunque non infinite, introduce la qualità discutibile del modello perseguito fino ad oggi, e ancora ampiamente in corso in tutto il mondo, ovvero quello della crescita quantitativa dei consumi di suolo, energia, aria, acqua, materie prime legati al cosiddetto sprawl urbano nel segno dell’automobile, e comunque dello scarso interesse verso altre modalità. Il percorso non è per nulla intuitivo, né di reazione spontanea a presunti eccessi, e parte da varie considerazioni di massima, come quelle sulla qualità dell’aria e gli effetti sulla salute, o più in generale ancora questioni come l’esaurimento dei combustibili fossili e il cambiamento climatico. Queste considerazioni di grande massima portano gli studiosi a formulare obiettivi, e la politica a tradurli in leggi ambientali. Infine tecnica e mercato cominciano a sperimentare soluzioni operative.

La prima che viene in mente pensando alla premessa, ovvero che un insediamento umano sul territorio debba garantire in qualche modo la comunicazione fra persone e luoghi diversi, è quella di trovare alternative ai consumi di suolo, fonti energetiche non rinnovabili, fonti di emissioni che modificano il clima globale. Nasce da qui la critica radicale allo sprawl suburbano, sia perché nonostante tutte le innovazioni puramente tecnologiche (dalle telecomunicazioni ai nuovi carburanti ecc.) è il suo modello organizzativo ad apparire comunque un pozzo senza fondo di consumi irreversibili, sia perché a ben vedere questo tipo di critica preliminare ne fa emergere altre, di carattere sociale, economico, e via dicendo. Esiste poi l’approccio che potremmo chiamare storico, visto che il suo riferimento è al tipo di evoluzione umana che ha condotto alla formazione delle città sino alla frattura industriale-ferroviaria prima, automobilistica e delle comunicazioni immateriali poi. Questa critica, forse la più frequente e spesso molto conservatrice, ai limiti dei toni reazionari, ha comunque il merito di sollevare una serie di questioni anche sociali e politiche non di poco conto, che si riassumono più o meno, schematizzando al massimo: esiste già un modello alternativo allo sprawl, ed è quello della città tradizionale, almeno così come si organizzava prima che Henry Ford (e i suoi esegeti urbanistici figli del medesimo periodo avanguardistico otto-novecentesco) buttasse a modo suo nel cestino la storia.

Come però insegna il buon senso, se l’umanità intera avesse come prospettiva quella di tornare inevitabilmente a una situazione di vita precedente l’attuale, di solito preferirebbe un consapevole anche se più indolore possibile suicidio. Salvo qualche élite privilegiata naturalmente. Perché di solito tutto il nostro agitarci mira a star meglio, e se appunto dovessimo avere come prospettiva quella di abitare peggio, muoverci di meno, essere più soli o troppo accompagnati ecc. smetteremmo di vivere. Non è una supposizione, ma una pura constatazione, e da qui nasce il dibattito. Come conciliare un’idea di città futura migliore e più giusta, con l’insostenibilità di alcune tendenze attuali? Le vie di mezzo tecnologiche, urbanistiche, socioeconomiche e anche politiche ovviamente si sprecano. Per restare coi piedi saldamente posati a terra (il rischio di decollare in fretta verso l’iperuranio del cosiddetto nuovo paradigma caro ai benaltristi e perdersi, qui è assai elevato), c’è un esempio recente di percorso pratico da guardare. Che appunto parte da considerazioni di grande massima, e molto pragmaticamente arriva a toccare aspetti assolutamente microscopici di vita e comportamenti individuali, di singoli, famiglie, imprese, formazioni sociali.

La cosa più interessante è che questo percorso va a coinvolgere direttamente e massicciamente proprio il motivo scatenante di tutta la deviazione novecentesca, ovvero l’automobile. Sto parlando dei corridoi di mobilità integrata serviti prevalentemente da autobus veloci. Dal riscaldamento globale all’autobus? Ma questo è scemo? È la domanda che potrebbe porsi qualcuno che si avvicina per la prima volta a tematiche del genere, ma che ad esempio chi si occupa di grandi progetti nelle grandi città dei paesi in via di sviluppo già conosce: si prende il veicolo a quattro ruote di Henry Ford, lo si rende efficiente al massimo in termini di emissioni e fonti energetiche, e lo si contestualizza in un sistema urbano adeguato, recuperando aggiornati alcuni temi classici delle utopie del passato sulla città lineare. Il resto viene quasi da sé, tenendo conto delle esperienze recenti che hanno portato vuoi alla dispersione dello sprawl, vuoi agli eccessi di concentrazione o di bassa qualità abitativa che ne determinano la domanda di mercato (e quella dei Suv, della privatizzazione dello spazio ecc.). La cosa interessante è che questo modello, nato in un primo momento come ripiego nelle situazioni in cui non era economicamente praticabile lo schema originario otto-novecentesco del corridoio ferroviario, pare potersi imporre anche in contesti di mercato più ricchi, anche là dove la dispersione ha trovato la sua culla già dai primissimi anni del ‘900: nella California meridionale.

Qui è indispensabile un breve riassunto delle puntate precedenti. Primo, il governatore Arnold Schwarzenegger, repubblicano anomalo nel senso di consapevole dei temi ambientali, durante il suo mandato aveva favorito l’approvazione di leggi prima su emissioni, qualità dell’aria e delle acque, innovazioni tecnologiche ecc., poi direttamente sul punto chiave, ovvero il rapporto fra modello di territorio e queste distorsioni. In pratica (questo i suoi sostenitori più reazionari lo scopriranno loro malgrado a cose fatte) fissando degli obiettivi molto generali si condizionano a breve termine anche cose tangibilissime. Le emissioni sono cosa urbana, la città è fatta di cose ferme e cose mobili che vanno da una cosa ferma all’altra, ed è questo rapporto il punto su cui intervenire: a volte tecnologicamente, il più delle volte in altro modo. Per esempio con piani territoriali che propongano modelli meno dispersivi. Niente piani territoriali del genere, niente soldi statali per le trasformazioni. Ovvero se volete farvi del male siamo in democrazia e io non posso impedirvelo, però non fatelo a mie spese. Brutale, ma efficace.

Come capiscono bene coloro che si occupano professionalmente di queste cose, il modo immediato per ridurre le emissioni è quello di ridurre le attività che le provocano, per esempio meno motori accesi che bruciano benzina. Dentro un corridoio multimodale dove convivono tante attività e funzioni diverse, quel motore si accende molto meno di quanto succeda nella dispersione, quando per esempio siamo obbligati a salire in macchina anche per andare durante una pausa dal posto di lavoro al ristorante del centro commerciale, perché quel centro commerciale sta dall’altra parte di uno svincolo, o fuori dalla zona specializzata a soli uffici in cui stiamo. Quindi in un contesto economicamente e demograficamente in crescita, dove comunque non è praticabile la scelta un po’ poverista che qui da noi qualcuno chiama decrescita spesso confondendo le acque (Latouche è un filosofo, da lì alla vita diciamo che c’è un po’ di strada da fare), ci si dovrà espandere appunto per corridoi compatti del genere. Che nell’assoluta tradizione della città lineare – dall’americano Edgar Chambless agli europei Arturo Soria y Mata e le Corbusier – agisce anche automaticamente sul risparmio della risorsa suolo a uso diversi da quelli dell’urbanizzazione. E poi c’è appunto l’autobus veloce, perché è un’automobile.

Ovvero l’infrastruttura portante, senza escludere altre modalità naturalmente, è un ibrido vincente fra il modello assai costoso delle ferrovia, o metropolitana o tranvia, e quello troppo invadente dell’auto individuale, che per quanto elettrica, tecnologica ecc. storicamente produce dispersione, richiesta di nuove infrastrutture, consumi indiretti di altre risorse. Autobus veloci, in sede stradale propria, si incrociano anche senza soluzione di continuità con autobus più lenti di servizio locale, costruendo esattamente il tipo di rete pervasiva mai riuscito nel più rigido rapporto ferro-gomma, ma al tempo stesso con una struttura abbastanza solida da evitare le fughe all’orizzonte dei negozi, servizi, posti di lavoro indotte dall’auto individuale dominante. Che naturalmente non scompare, perché mai dovrebbe? Nessuno nega le incredibili possibilità delle innovazioni tecnologiche e organizzative, dall’elettrico alimentato da energie rinnovabili, alla fine del modello proprietario a favore di uno condiviso purché a reti non ridicole come quelle attuali di raggio municipale. Ma in una città dove si riducono le distanze inizia ad avere senso anche la mobilità pedonale e ciclabile, pure questa con le sue necessità di infrastrutture e servizi.

Prendiamo la solita battaglia campale fra bottegai grandi e piccoli, e mi scuso col termine ma non me ne viene ragionevolmente in mente un altro, fra la via tradizionale e lo scatolone in mezzo a un parcheggio. Ecco, si tratta di una battaglia di retroguardia, che diventa ancora di più tale se la collochiamo in uno di questi corridoi multimodali e multifunzionali. Lo scatolone del supermercato con annessi e connessi nasce attorno alla mobilità automobilistica in senso lato, ovvero sia del consumatore che di tutto il sistema di forniture, e pure di produzione. Il negozio urbano discende invece dal modello del mercato rionale e del quartiere a mobilità forzatamente pedonale o ciclabile (o al massimo col mezzo pubblico, ma siamo già al limite). Chiunque abbia sperimentato a lungo entrambi i modelli, magari provando anche a ibridarli a modo proprio, dovrebbe saperlo bene. La spesa senza auto al centro commerciale è un’anomalia, e il tipo di consumi del negozio tradizionale è necessariamente di nicchia: una nicchia che non si conserva in eterno, e che tra l’altro potrebbe essere tranquillamente occupata (già avviene) da un tentacolo secondario della medesima piovra a cui appartiene lo scatolone automobilistico. Ecco, nel corridoio multimodale c’è immenso spazio per una riorganizzazione radicale dei modelli di commercio e consumo, lontano da quella falsa dialettica tra nuovo e antico, presunta quantità contro presunta qualità, socialità artefatta e ideologia oltre i limiti del ridicolo.

La mobilità dolce introduce anche il tema dello spazio pubblico/collettivo a rete, e il ruolo del verde e della qualità ambientale. Più persone volentieri scaraventate quotidianamente sia fuori dal soggiorno che dall’abitacolo dell’auto, finiscono per costruire un mercato di massa per spazi e servizi inediti, sicuramente diversi da quelli che abbiamo a disposizione oggi, luoghi in cui incontrarsi per lavoro e tempo libero, strutturalmente privi delle caratteristiche di segregazione che hanno oggi nei vasi non comunicanti della rete automobilistica. Lo stesso relativo risparmio della risorsa suolo induce (per forza) a massimizzare sia il momento della relazione e dello scambio, sia quello della sacra privacy, ma prevalentemente al di fuori dell’idea di acquisizione esclusiva di oggi: le barriere mal si conciliano con un’idea di mobilità e di flusso. Questo, almeno, se proviamo a sviluppare coerentemente l’idea di corridoio così come suggerita dalla storia e della sperimentazioni più recenti (dalle biciclette nazionalpopolari di Bogotà alla fighettona ma un po’ monca High-Line newyorkese). I due ultimi esempi sottolineano un aspetto rimasto sinora sospeso: il lavoro sulla città esistente, oltre che le utopie esercitate sulla tabula rasa del territorio disponibile.

Raccontano giustamente i critici di certo new urbanism mercatista solo di maniera, come l’idea del raccolto quartiere della stazione, ridotta da alcuni architetti a caricatura di tipologie e ambienti, ma avulsa da una logica di piano e anche di riforma socioeconomica, produca dei mostri: c’è il 100% del quartiere, ma al centro non c’è nessuna stazione. Anzi, in quel quartiere ci si arriva solo ed esclusivamente in automobile, da parcheggiare poi nell’enorme autosilo o piazzale, abilmente nascosto. In definitiva un giocattolino che di sostenibile ha solo la parola stampata sui pieghevoli pubblicitari. Accade che ovviamente costruire una città vera nuova di zecca costi moltissimo, soprattutto se vuole essere del tipo che si è più o meno riassunto sinora. Il trucco però, per così dire, è abbastanza a portata di mano: c’è lo spazio sterminato dello sprawl da trasformare a disposizione, dentro il quale sono già stati fatti tantissimi investimenti base nel passato. E giustamente ruotano attorno a questo tema moltissime posizioni teoriche e politiche pratiche, dalle nostrane dissertazioni un po’ ambigue sulla cosiddetta città diffusa al bel programma urbanistico-trasportistico della capitale canadese Ottawa, dove l’idea di TOD (transit-oriented-development, quartiere della stazione appunto) di fatto prevede pochissime trasformazioni fisiche, e molti microprogrammi di agevolazione varia, verso un radicalmente diverso stile di vita urbano a basse emissioni.

Uno degli ultimi nati fra i modelli sperimentali, l’Orange Line Bus Rapid Transit Sustainable Corridor Implementation Plan, di Los Angeles, interessa un corridoio di una trentina di chilometri nella fascia settentrionale. È uno strumento per conseguire gli obiettivi regionali di contenimento (anche economici e privati) di un consistente investimento in infrastrutture e mezzi, come quello della rete di autobus pubblici veloci in sede propria, delle reti locali di servizio ai quartieri, delle opere di contesto come stazioni, piste ciclabili, ponti, varianti stradali. C’è un contesto cresciuto indubitabilmente nei decenni sotto il segno delle freeways (il percorso è quasi esattamente parallelo a quello est-ovest della Ventura Freeway) e in sostanza della dispersione, per quanto nella forma a densità abbastanza elevate di Los Angeles. E c’è l’idea di poter collocare tantissima nuova crescita entro il medesimo contesto, non in modo forzoso ma stimolando innovazione e produzione di ricchezza per tutti. A partire dai nodi delle stazioni, che però in una logica non da architetti e costruttori cambiano sottilmente nome: non più il forse abusato e banalizzato transit oriented develompent, ma transit oriented district. Che vuol dire?

Vuol dire che il modello di intervento discende proprio da finalità altre, ambientali, legate alle emissioni, e affronta il sistema complessivo in quanto tale. Non parte invece da una logica sostanzialmente speculativa edilizia per alimentare aspettative di investimento, e poi addobbarla solo inseguito con probabili vantaggi ambientali. La densificazione non è né un fine né un mezzo, al massimo un risultato tra gli altri, neppure obbligatorio. Giusto per tagliare immediatamente le gambe alla classica critica di scettici e faziosi: volete trasformare le nostre belle città occidentali negli alveari incubo delle megalopoli asiatiche. Niente affatto recita implicitamente il documento: noi indichiamo delle potenzialità insediative che ben si mescolano alla nostra idea di mobilità, poi fate voi come meglio credete. Perché non stiamo parlando di una desolata periferia del mondo, ma del posto più ricco del pianeta (l’estremità occidentale della linea, per inciso, si chiama Hollywood). Dove chi può comprarsi l’auto, la casa, la benzina e gli strumenti di telecomunicazione che hanno costruito nei decenni il tecnoburbio, per usare la bella definizione novecentesca di Robert Fishman, potrebbe anche spontaneamente rinunciarci a favore di qualcosa di molto meglio, anche se ruota attorno al povero autobus. Basta usare un po’ il cervello, che probabilmente è una risorsa assai abbondante, ma è stata resa sinora poco accessibile dal mitico mercato, quello molto manovrato dai soliti noti.

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