Convivenze sociali nelle grandi città (1942)

L’Urbanistica e l’Architettura, come fattori di ordine ed educazione sociale, hanno un valore profondo, quale nelle moderne attuazioni non è stato valutato nella giusta misura, esse hanno l’altissimo ufficio di distribuire le grandi masse urbane secondo i più giusti principi di umana convivenza, di ordinarle nel loro lavoro e ambientale nell’espressione della loro vita familiare e pubblica, secondo il rispetto di un’elevata dignità individuale ed insieme di una giustizia e di un benessere collettivo. Noi crediamo che ogni problema architettonico sia legato da una biunivoca corrispondenza con ogni problema urbanistico e che quindi ogni soluzione di quest’ultimo debba preludere e concepire la conseguente soluzione architettonica.

L’Architettura però, come espressione a sé, può è vero essere manifestazione e simbolo di un certo periodo politico, in quanto espressione stilistica di un tempo, ma non può essere elemento ordinatore, espressione di un ordine sociale, in quanto appunto risolve in sé problemi limitati ad una visuale, ad un volume, ad un ambiente: casa, strada, piazza. L’Urbanistica invece è la disposizione più alta e la soluzione a priori per la quale una città, a parte il valore artistico ed architettonico dei singoli elementi, case o palazzi, assume un determinato carattere e una determinata distribuzione sociale.

Alla nostra considerazione non giova esaminare le vecchie città ed i piani urbanistici di adattamento che a loro si riferiscono, né d’altronde hanno importanza per noi le nuove piccole città rurali e minerarie, che, almeno per ora, hanno solo il ruolo di grossi paesi e, in quanto abitate quasi totalmente da un’unica classe di lavoratori, non richiedono immediati quei problemi di cui andiamo trattando. Interessano alla discussione invece, i piani regolatori che hanno disposto e dispongono di grossi nuclei suburbani i quali per grandezza ed importanza possono considerarsi vere e proprie città moderne. Né qui per ora è affar nostro prendere a giudizio i consueti caratteri di ogni piano urbanistico, quali la sua funzionalità circolativa, i suoi collegamenti, i rapporti fra area costruita e suolo pubblico e via dicendo, i quali elementi, sia pure essenziali, non superano l’importanza di requisiti tecnici.

Quello che a noi qui invece interessa ha un valore più profondo, è il principio primo impostativo di ogni organismo cittadino; noi vogliamo vedere se ognuno d’essi ha risolto in sé nella zonizzazione dei piani, il problema della distribuzione qualitativa e quantitativa della popolazione cittadina. Chi faccia una rapida indagine sugli esempi più cospicui e recenti può facilmente rendersi conto che si è partiti quasi dovunque con un concetto errato, e si sono, con l’intento di creare ordine, generate invece perniciose divisioni. Le imponenti masse operaie che si sono formate nell’ultimo secolo e che sono divenute per numero ed importanza lo strato fondamentale dello stato moderno, hanno richiesto il loro posto ufficiale nelle città. Si è creduto di risolvere questo difficile compito creando particolari zone e nuclei operai in prossimità di zone industriali, e quindi nelle parti meno belle e salubri delle città, con una insistente preoccupazione di distinguerli e di isolarli dai nuclei residenziali signorili e per classi medie.

Torna a proposito considerare che questi quartieri operai furono uno dei primi frutti della lotta di classe ed uno dei provvedimenti sociali adottati a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori dell’industria. E su questa strada si è insistito fino ad oggi in ogni paese con l’aiuto di tutti i miglioramenti che l’edilizia moderna ha potuto apportare. Ma l’errore primo è rimasto; e diremo che attraverso il progressivo dei mezzi si è reso maggiormente evidente. Le città vengono così ad essere suddivise urbanisticamente per classi con un risultato socialmente negativo. Se le moderne città debbono essere, nella perfezione del loro organismo, l’esempio più limpido e chiaro del cammino livellatore della civiltà, ecco che si è fatto tutto il contrario; si è accentuata in questo insigne capolavoro della civiltà umana, quella differenziazione per ceti che tutte le ideologie sociali moderne tendono invece ad abolire.

In fondo la soluzione corrisponde ad un modo facile di concludere un così grave problema che si è risolto a mezzo per la riconosciuta insufficienza ad affrontarlo radicalmente. Siccome il raffronto immediato e vicino fra un ceto e un altro può essere pericoloso, perché non allontanare la modestia di vita di una classe dal benessere agiato delle altre, perché non evitare questa vicendevole offesa? Il ragionamento può anche tornare come via di compromesso di una soluzione affrettata, ma in questo modo l’errore si è perpetuato sin oggi nelle nostre città, le quali si trovano ad essere, nelle loro parti nuove oltre che in quelle antiche, strumento inefficace se non contrastante alla migliore attuazione dei moderni principi sociali. Ora questo rappresenta a nostro avviso un grave errore urbanistico e quindi sociale. Coloro che appartengono ad una categoria definita per qualità di lavoro e che passano per le zone adibite alla vita di un’altra, saranno sempre colpiti ed urtati dal fasto o dalla grigia modestia dell’altra. E sarà sempre allontanare e distinguere, isolare nei loro difetti, rendere perpetuamente incomprensibili ed antagonistiche quelle classi di uomini che, pur diverse nel lavoro e se vogliamo nel genere di vita, come collegati elementi della società, devono viversi vicini e vicendevolmente compresi.

Disporre invece la città e le parti residenziali di esse ad accogliere indistintamente e con ordinata libertà le diverse classi sociali, sicché esse non formino casta anche nel luogo da abitare, ed in nobile e chiara distribuzione quale il valore del legislatore e dell’urbanista possono in collaborazione prevedere, è opera coraggiosa i fondamento per la educazione sociale delle masse e per la loro armonica distribuzione. Abitare vicino a chi vive in maniera diversa è l’insegnamento più efficace di vita poiché è l’elemento di limite e di misura a chi essendo nelle maggiori esigenze può giustificare un eccessivo egoismo ed una troppo forte differenza di tono, ed elemento di elevazione e di comprensione a chi, vivendo liberamente a contatto di chi ha un lavoro ed un ruolo superiore, è portato così a concedergli delle esigenze maggiori.

Obbligare classi di uomini uguali nel lavoro a vivere nello stesso edificio, nella stessa strada e nella stessa zona, agli effetti di un ordine collettivo, è giusto fino ad un certo punto. L’uomo il cui rendimento e la cui educazione viene regolata e predisposta collettivamente deve poter completarsi, formarsi e vivere in forza della sua stessa personalità, della sua ricerca ed iniziativa individuale. Quando la società può inquadrare ed educare l’individuo nella scuola, nella officina, nell’ufficio, nella ricreazione spirituale e fisica, deve potergli concedere una libertà di educazione e di sviluppo personale per non renderlo un elemento troppo meccanico nel suo stesso organismo. E questa libertà gli va lasciata soprattutto nell’espressione della sua vita privata, nella casa e nella famiglia, in libero rapporto al suo prossimo. Alla realizzazione dei piani ispirati a questi concetti è preposta la funzione dell’Urbanista, il quale non deve essere, come comunemente si pensa, solamente un tecnico, ma un uomo di intuito superiore e di una grande formazione mentale, tale che sia capace di concepire il più alto ed ordinato ambiente di vita per la dignità ed il benessere di un popolo di secolare civiltà.

da: lo Stile, maggio 1942 (il titolo completo dell’articolo, qui tagliato per leggibilità nella impaginazione online, era «Il grande umano problema delle convivenze sociali nelle grandi città»; l’immagine di copertina, un particolare della Torre di babele di Benozzo Gozzoli, è la stessa inquadratura scelta dalla Rivista)
Forse per inquadrare meglio questo brano di Giovanni Michelucci, vale la pena tornare al dibattito sulla
Legge Urbanistica del 1942 entro cui oggettivamente si inserisce 

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