Da casa automobilistica a azienda per la mobilità?

Facile dire cose tipo «nuovo paradigma» quando si sta seduti al bar, o si parla a un convegno verso la fine, per evocare un po’ di entusiasmo nello stanco uditorio. Altro conto è provare a immaginarlo quantomeno sino ad una certa scala di dettaglio operativo, specie se quel nuovo paradigma può significare la propria vita o morte: è questa la posizione delle imprese quando si tratta di sconvolgimenti tecnologici, organizzativi, e conseguentemente socioeconomici, direttamente riguardanti il proprio settore e quelli contermini. Per le case automobilistiche, vero e proprio fulcro di tutto lo sviluppo novecentesco, da ogni punto di vista possibile e immaginabile, ora è il momento di farci i conti, con questo nuovo paradigma, che abbiamo altre volte riassunto nel termine «demotorizzazione», a raccogliere in un unico seppure assai semplificato contenitore tantissime cose, che vanno dai progetti di driverless car, al passaggio a energie rinnovabili, alla smaterializzazione di molti processi (e prodotti), alle trasformazioni urbane e spaziali parallele, alle complementarità possibili e immaginabili del neo-universo automobilistico col resto dei flussi di mobilità. Il che, detto con le parole di un alto dirigente della Ford, suona: «Non siamo più un’impresa che costruisce auto, ma un’azienda attiva nel settore mobilità». Si tratta di una battuta, di un giochetto su sinonimi per confondere un intervistatore? Magari in parte sì, e sicuramente allo stato delle cose anche, ma certamente la «fabbrica di veicoli da vendere» sta cedendo il posto a qualcos’altro. E tocca iniziare a farci i conti

Unico collante, la gestione dei flussi per profitto

È pur vero che, all’alba del XX secolo, chiedendo alla maggior parte delle persone (inclusi i futuristi che già decantavano teoricamente bolidi sfreccianti) cosa pensassero dell’automobile, ci si sentiva rispondere per forza qualcosa del tipo «una carrozza senza cavalli», ovvero leviamo la bestia legata sul davanti, eliminiamo anche la cacca per strada piena di mosche e le stalle sparse per le città che fanno tanto disordine, ed ecco il futuro bell’e fatto. Ci cascarono anche un sacco di urbanisti piuttosto bravi e intelligenti, in quella trappola di mancato ragionamento sistemico: la questione dei parcheggi, lo stravolgimento degli stili di vita e aspettative di consumo, la vera e propria fine delle città così come eravamo abituati a considerale, niente sfiorava il cervello dei nostri nonni e bisnonni. Oggi di fronte a potenziali analoghi rivolgimenti del genere, almeno il medesimo errore di metodo non andrebbe fatto, non si dovrebbe cioè ricostruire attorno all’innovazione il medesimo mondo di prima, saltando a piè pari tutte le probabilissime sliding doors viste e riviste in casi analoghi. Ed ecco allora che una cosa da comprendere è il riallineamento di settori e interessi dentro il campo dei flussi, probabilmente anche quello degli spazi che quei flussi contengono. Prima di tutto smettere di fare distinzione fra operatori di servizi, produttori di hardware e software dedicato (dalle app ai treni ad alta velocità insomma, costruttori di auto inclusi), e probabilmente anche fra un mercato individuale e uno di massa, ovvero tra il veicolo in proprietà classico e il cosiddetto mezzo pubblico. Quando anche un ex monopolista ferroviario inizia a dichiarare «vorremmo operare a tutto campo», si interessa di bike sharing e ci investe, parallelamente dismette e valorizza scali urbani anche in rapporto ai nuovi equilibri di flusso, qualcosa vorrà pur dire.

Il nuovo si mescola al vecchio

Gli orizzonti di gloria non sono tali se non si sovrappongono anche a quelli di infamia. O se vogliamo, per essere meno brutali e non usare quelle categorie sgradevoli di vincitori e sconfitti, diciamo che il nuovo nasce gradualmente dal vecchio assumendone e modificandone i caratteri, esattamente come i prototipi di quadriciclo scimmiottavano forzosamente le carrozze, e i primi distributori di carburante assomigliavano a un emporio, o addirittura erano, un emporio, o una farmacia. Così magari, transitoriamente, continueremo a vedere le città progettate per inerzia da geometri che hanno studiato lo standard di sosta novecentesco, e «applicano la legge», destinando a parcheggio superfici asfaltate sempre più vuote, visto che tra car sharing, auto senza pilota, incremento nell’uso dei mezzi collettivi e della mobilità dolce, puro taglio degli investimenti dei produttori in quella direzione (del veicolo in proprietà individuale) per entrare invece in altri campi con gli investimenti, si ridurranno le macchine, e aumenterà esponenzialmente il numero di ore in cui si spostano, invece di star ferme come accade oggi. L’automobile magari per un po’ continuerà ad essere uno status symbol anche nel nuovo ordine, ovvero a non essere riducibile a puro oggetto d’uso, come accade pure ai telefonini o alle scarpe. E allora il mercato si può articolare, e richiedere molte linee di prodotto, aspettative, spazi dedicati, stili di vita e consumo conseguenti. Diverse reti di car sharing che conferiscono immagine a chi le usa, magari stigmatizzano come successo nei decenni a certi modelli di automobile. Oppure una vera e propria concorrenza sulle fasce d’uso o di distanza o di prezzo sovrapposte, sabotaggi all’intermodalità perfetta e apparentemente ovvia proprio in nome di quegli artefatti «stili di vita». Tutto può succedere, e va in qualche modo messo nel conto. La vera cosa su cui riflettere, a ben vedere, suona: ha senso, con queste prospettive, fare investimenti pubblici, collettivi, di lungo periodo, su certi progetti e ambiti di fumoso avvenire? Una prospettiva storica ci direbbe di no, e dovremmo chiedere alla politica di rappresentarci, almeno su quel versante. Per un quadro molto soggettivo ma assai ricco di spunti, si veda questa intervista di un manager automobilistico, a un periodico specializzato in investimenti, e quindi nel «fiutare il futuro».

Riferimenti:
Rex Moore, General Motor’s Head of Urban Mobility Talks Self-Driving Cars, EVs, and Ride Sharing, The Motley Fool, 5 giugno 2017
Immagine di copertina: Fiat Brougham, da Handbook of Automobiles, National Chamber of Commerce of Automobiles Incorporated, 1920 

Commenti

commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.