Densificazione, edilizia economica e sviluppo locale

L’ultimo censimento degli Stati Uniti ci dice che in gran parte delle grandi città americane la popolazione aumenta disperdendosi su una vasta superficie territoriale. Soltanto 12 tra i 50 principali centri nel 2020 hanno una densità di almeno 2.900 abitanti al chilometro quadrato. E teniamo presente che quella era la densità media delle grandi città americane al 1950, l’ultimo censimento prima della suburbanizzazione di massa, delle demolizioni e ricostruzioni urbane su vasta scala, del sistema autostradale interstatale che avrebbero redistribuito drasticamente la popolazione da quei densi poli serviti dal trasporto pubblico. Questo articolo riguarda quelle 12 città, gran parte delle quali hanno avuto forti incrementi di abitanti negli ultimi due decenni. Città dense sono importanti per il paese in quanto punti nodali di innovazione economica e culturale, oltre che come aree dove gli abitanti adottano volontariamente modelli abitativi e stili di vita con minore impronta ecologica rispetto alla media. Queste città crescono, fanno crescere la produttività del lavoro, rallentano il ritmo delle emissioni clima alteranti, aumentano le alternative di scelta per dove e come abitare.

Nell’insieme, queste città relativamente dense hanno seguito due distinguibili schemi di sviluppo. Uno di questi è il modello urbanistico che chiamiamo «grande affare» dei governi locali che di fronte alla necessità di edificare per nuove abitazioni ma anche alla diffusa opposizione dei comitati locali a questo insediamento, si sono concentrate su alcune zone – centrali e meno centrali – dove non esisteva particolare concentrazione di abitanti che potessero opporsi. Le superfici di questi quartieri passibili di trasformazione possono essere parcheggi, zone industriali dismesse, terreni pubblici che non hanno più particolare utilità strategica, zone residue di piani di rinnovo urbano non realizzati e senza nessun abitante. Certo questo tipo di urbanistica grande affare pragmatico per incremento di popolazione ha parecchi difetti. Dipende da modelli abitativi costosi come gli edifici a torre che si rivolgono a fasce ad a medio-alto reddito. Mentre tante altre famiglie entrano in concorrenza l’una con l’altra per soluzioni inadeguate di edilizia più vecchia oppure dei pochi alloggi di edilizia pubblica sovvenzionata che la città riesce a costruire. Inoltre, l’urbanistica del grande affare ha dimostrato di spingere verso realizzazioni tutte contemporanee tutte uguali tutte rivolte alla medesima fascia di abitanti e concentrate in pochi luoghi. Ovvero produrre quartieri pochissimo adattabili al passare del tempo e all’evoluzione degli stili di vita.

L’alternativa, più difficile, è il percorso della dispersione della crescita su un vasta area urbanizzata. Piani di «sviluppo distribuito» in grado di modificare profondamente zone già abitate, che creano potenziali conflitti e ricorsi sulle decisioni. Tra questi casi figura il piano dei cosiddetti villaggi urbani di Seattle, al tempo stesso abbastanza concentrati ma sparsi su varie zone della città; o Boston con la costruzione di nuove case economiche per famiglie a reddito medio senza sussidi, vicino alle fermate del trasporto pubblico; o Minneapolis coi corridoi commerciali di crescita dove su un lotto classico unifamiliare si consente la costruzione di tre alloggi. Questa crescita dispersa può essere facilitata da una programmata acquisizione pubblica di terreni, di miglioramento dei mezzi di trasporto, di cura per la qualità generale degli altri quartieri, delle infrastrutture, del verde. Le città ci guadagnano uno sviluppo più graduale e più composito nelle trasformazioni, le nuove abitazioni si rivolgono a diverse fasce di reddito anche senza sostegni pubblici, la crescita di popolazione non viene percepita come un carico particolare sui quartieri.

Le città più dense degli Stati Uniti nel 2020 (cliccare sull’immagine per ingrandire) 

La TABELLA 1 elenca le dodici città americane tra le cinquanta più popolose al 2020 con una densità superiore a 2.900 abitanti per chilometro quadrato [in tabella le quantità sono naturalmente in popolazione per miglio quadrato n.d.t.]. Quasi tutte sono cresciute in abitanti e nuclei familiari nei due decenni 2000-2010 e 2010-2020. Chicago, che ha perduto abitanti nel primo decennio per guadagnarne nel secondo ma restando sempre sotto la soglia precedente, fa eccezione. Crescendo comunque quanto a abitazioni in entrambi i decenni. Spiccano come eccezioni tra questi casi già eccezionali di città americane Seattle, Washington, D.C., e Miami. Le popolazioni di queste tre città nei due decenni sono aumentate di oltre il 20% (Seattle addirittura oltre il 30%), e la quantità di alloggi rispettivamente del 36,1%, 27,5%, e 43%. Quattro altre città crescono di oltre il 10% in popolazione: San Francisco, Boston, Oakland, Minneapolis. Gli abitanti di New York City aumentano del 9,9%, ma in assoluto sono 796.000, ovvero più che in tutte le 17 grandi città.

Perché è così importante la densità di popolazione

Le città dense rappresentano un ideale urbanistico che altre città meno dense provano a replicare. Si trovano al centro delle aree metropolitane ad elevata produttività (specie quelle con attività a forte investimento di capitale-energia). Densità urbana si accompagna a una maggiore facilità di innovazione e scambio di informazioni, specie in settori ad elevato livello di formazione e istruzione. Una serie di caratteristiche virtuose – densità e produttività economico, forza lavoro ad alta qualificazione, imprese innovative – che in gran parte spiega perché tante città cercano quel genere di quartieri densi multifunzionali, interazione, stimoli culturali innovativi. Che sappiano attirare, si ipotizza, abitanti professionalmente qualificati per occupare posti di lavoro ad elevata produttività economica.

Una seconda ragione per l’importanza di città dense è che si orientano a un futuro di sostenibilità ambientale. Gli abitanti di una città densa guidano di meno, usano di più il traporto pubblico, occupano tendenzialmente alloggi più piccoli in edifici a maggiore efficienza energetica o multi-appartamento. La possibilità di ridurre notevolmente le emissioni grazie a case realizzate in ambienti densi, dove molta parte della popolazione ambisce ad abitare, interessa parecchio gli urbanisti. A differenza di altre strategie climatiche come quelle che richiedono sussidi, tasse, leggi, la densificazione urbana si può ottenere abbastanza low cost, specie dove già esistono tradizionalmente reti di trasporto pubblico e reti di servizi ambientali ancora funzionali, e dove già la migrazione urbana avviene per gruppi qualificati. Famiglie che possono permettersi ciò che viene offerto dal mercato di nuove costruzioni e sostenere le tasse locali necessarie per infrastrutture e servizi, mantenendo in pari i bilanci finanziari delle amministrazioni.

L’alternativa tra «urbanistica grande affare» e redistribuzione

Ogni città ha proprie caratteristiche inimitabili, ma tutte affrontano un dilemma identico quando si tratta di crescita. Si tenta di attirare industrie e posti di lavoro, e poi crescere su quelle basi. Lavoratori significa famiglie, figli, altro lavoro e lavoratori a cui rivolgersi coi servizi. Cresce la popolazione e cresce il bisogno di abitazioni, a cui rispondere sul breve termine risulta rigido. Affitti elevati, alti prezzi delle abitazioni, ben oltre i costi delle sostituzioni del vecchio col nuovo, indicano bene quanto in tanti quartieri la domanda superi di gran lunga l’offerta. Mentre gli abitanti già insediati in quei quartieri spesso si oppongono a nuove costruzioni e abitazioni attraverso varianti urbanistiche che consentirebbero di intervenire a operatori privati.

Le amministrazioni cittadine paiono orientate a rispondere al problema in entrambe le direzioni, una ciò che l’urbanista canadese Gordon Price chiama Grand Bargain o buon affare. In questa opzione dello scambio vantaggioso, le nove case si concentrano in zone ad elevata densità verso il centro, in superfici industriali dismesse, o altri quartieri con pochi abitanti che facciano opposizione. Si evita di intervenire su zone abitate a bassa densità, mantenendo elevati i valori di quegli immobili dentro «quartieri caratteristici» pure di valore. Ho già discusso altrove di come New York City con l’amministrazione di Michael Bloomberg abbia perseguito una propria versione dell’Urbanistica Buon Affare, col consiglio comunale disposto a discutere alcune varianti di piano piuttosto riuscite, specie in aree non residenziali centrali, vincolandone però altre con norme piuttosto restrittive su aree estese di quartieri. Uno scambio che spinge la costruzione di nuovi alloggi in tutto il decennio 2010–2020, quando la popolazione aumenta di 629.000 abitanti. Ma cresce concentrata in pochissime tra le 59 circoscrizioni di quartiere, mentre in tante altre con un mercato edilizio estremamente dinamico le norme sia di trasformazione che di conservazione storica restano molto rigide.

Washington, D.C., con la sua Sixth Ward che cresce rapidamente in fascia a nord, est, e sud ovest del Campidoglio, e al contrario un molto statico, agiato, e costoso Nord-est, rappresenta un altro ottimo esempio di urbanistica buon affare. Lo stesso per San Francisco, dove le trasformazioni si concentrano in pochissimi quartieri centrali lungo la costa e a sud del Bay Bridge. Mentre quartieri consolidati residenziali in altre parti della città cambiano pochissimo. Un altro esempio ancora è Miami, con edifici molto alti costruiti su una striscia compresa tra l’autostrada I-95 e al costa.

Un tipo di trasformazioni urbane che spera tantissimo nella crescita e vantaggi economici. Urbanisti e amministratori pragmatici, che agiscono su quanto ritengono realisticamente più praticabile. Ma non tutto va come dovrebbe e il grande affare non è sempre tale. Un rovescio della medaglia è che le case realizzate sono soprattutto del tipo più costoso: grandi edifici ad appartamenti sviluppati in altezza. Il tipo invece più semplice da finanziare, meno costoso da realizzare, e che più probabilmente offrirà prezzi e affitti minori – palazzine, complessi giardino, edifici ad appartamenti nei lotti residui – trovano pochissimo spazio. Tipi che non a caso vengono definiti «intermedi mancanti» e un tempo frequentissimi nelle città americane fino al 1950, poi con le norme di azzonamento sempre più restrittive diventati quasi impossibili da realizzare in tanti quartieri. Consentire di nuovo queste abitazioni low-cost allargherebbe l’ambito dei redditi che possono accedere alla casa in proprietà o in affitto anche senza sostegni pubblici. Minneapolis, con la variante che consente tre alloggi in un lotto pensato originariamente per uno solo, è un esempio di questa rivitalizzazione della categoria intermedia.

Altra critica al Grand Bargain è quelle di spingere le trasformazioni tutte negli stessi quartieri tutte contemporaneamente e tutte sul medesimo segmento di mercato: giovani professionisti ad elevato reddito nell’ultimo decennio. Zone uniformi che potrebbero non adeguarsi nel tempo al cambiamento economico e sociale. L’urbanista di Washington Payton Chung, cita la Jane Jacobs di Vita e Morte delle Grandi Città quando decanta le trasformazioni graduali nei quartieri, che promuovono diversificazione e capacità di adattarsi al cambiamento. Jacobs criticava a suo tempo l’uniformità dello urban renewal. Ma anche le trasformazioni private di grande scala condizionate da certe varianti urbanistiche e linee guida progettuali imposte dai piani locali possono avere risvolti negativi identici.

Un terzo problema ancora, per l’urbanistica «grande affare» è l’impossibilità pratica che sia davvero buono, che lo scambio sia vantaggioso. Una volta sfruttata la possibilità aperta dei quartieri in cui è politicamente più facile la variante urbanistica, anche quelli risparmiati devono condividere il peso di assorbire la crescita di popolazione. Nessuna città possiede scorte illimitate di superfici industriali disponibili o pubbliche inutilizzate da colmare di case. Ma la crescita continua. Si riesce a trasformare in abitazioni tutto quanto compreso in piani anche organici e che coprono il prevedibile futuro, ma si delinea già un futuro meno prossimo con altri bisogni di case, per cui bisognerà individuare altre categorie di spazi. Peraltro appare ovvio che pessime politiche per affrontare la questione casa poi suscitino delle opposizioni. Gran parte delle città oggetto del presente articolo hanno elevati livelli di «carico dell’affitto» ovvero nuclei familiari che spendono oltre il 30% del proprio reddito per la casa (TABELLA 2). La consultazione referendaria locale sul controllo pubblico degli affitti di Minneapolis, che autorizzava la città a intervenire su questo punto, ne è un esempio significativo potenzialmente negativo. Gli elettori della confinante St. Paul contemporaneamente approvavano uno dei provvedimenti più rigidi di controllo del paese. Certo un provvedimento è diverso dall’altro, ma i meccanismi di controllo sugli affitti sono sostanzialmente intesi a mantenere gli inquilini nel loro alloggio, e riducono ulteriormente così la disponibilità di case pesando sui costi delle nuove costruzioni per rispondere alla crescente domanda.

Le città della California vengono sollecitate dal meccanismo di legge statale che obbliga i piani urbanistici a introdurre un apposito capitolo Regional Housing Needs Allocation (RHNA) / Housing Element, fissando obiettivi di costruzione di case. Il che ha condotto ad allontanarsi via via dal criterio del Grande Affare, verso l’alternativa di uno sviluppo più distribuito con le relative difficoltà politiche. Spalmando la costruzione di nuove abitazioni in diverse zone di tutta la città e con densità diverse, il metodo risulta più equo distribuendo il carico, e più in grado di reagire ai cambiamenti dato che si attua su un periodo più lungo. Il modello seguito da Seattle ad esempio è una strategia di «villaggi urbani» introdotti nel piano, che ha prodotto numerose nuove abitazioni multi-familiari nei quartieri esterni.

L’ultimo rapporto periodico pubblicato dall’amministrazione rileva come dall’inizio nel 2016 al 30 giugno 2021, gli alloggi siano aumentati del 28,9% nei cosiddetti Urban Centers, ovvero le zone più dense a ridosso del centro. Crescita del 21,7% negli Hub Urban Villages e del 20,1% nei Residential Urban Villages più esterni. Ma la città si sta avvicinando in alcune zone agli obiettivi di risposta ai bisogni calcolati per il 2035, e deve stabilirne di nuovi individuando nuove aree. Boston nel suo piano cerca un approccio diverso ma egualmente efficace di distribuzione della crescita. Il programma fissa un obiettivo di realizzazione di case sul mercato per fasce di reddito medio, con abitazioni in aree esterne e bassi costi dei terreni e costruzione. L’ultimo rapporto periodico di Boston del 2020, indica che dal 2011 sono state rilasciate 7.584 autorizzazioni edilizie per case private rivolte a reddito medio, a fronte di un totale concessioni di 35.955. Il piano 2040 di Minneapolis si focalizza su corridoi di mobilità ed elevata densità rappresenta un altro metodo di perseguire uno sviluppo più distribuito.

Dal «grande affare» alla crescita più equamente distribuita significa decisioni lungimiranti e determinate, con adeguata consultazione pubblica di conferma. In molte città, assume la forma di piano generale che accetta la considerazione secondo cui sia i cittadini che gli amministratori sono molto cauti quando si tratta di trasformazioni urbanistiche densificanti. Tra le perplessità quella che i mezzi pubblico possano o meno reggere il carico di nuova popolazione e alloggi. Le grandi città più tradizionali come Boston hanno già una rete di trasporti in grado di sostenere anche una popolazione in crescita, specie modernizzandosi e sostituendo i mezzi. Il piano trasporti di Boston, Go Boston 2030, comprende un elenco di interventi in particolare per autobus rapidi. Le città prive di una tradizione di trasporti pubblici, come Seattle, si sono dotate di sistemi su rotaia e li stanno allargando. Il piano Minneapolis 2040 pure comprende autobus, corsie dedicate e sistemi di segnaletica preferenziale. Altra cautela indispensabile delle azioni pubbliche per la casa economica è di fissare precisi obiettivi di realizzazione. New York City un orientamento generico verso questo modello di case fa sì che ci siano poi priorità distorte ed enormi risorse pubbliche investite senza alcun rapporto con la crescita di popolazione complessiva. A Boston, per contro, vengono monitorate percentualmente le realizzazioni di case economiche sul totale delle concessioni edilizie residenziali. Seattle controlla l’intera produzione edilizia e pubblica a parte degli aggiornamenti annuali sulle realizzazioni di tipo economico.

La casa economica rappresenta un investimento aggiuntivo che in gran parte de casi deve essere sostenuto dal settore pubblico perché gli operatori privati che partecipano possano trarne sufficiente vantaggio. Dato che le risorse pubbliche sono poche, sono parecchie le amministrazioni che ricorrono al metodo urbanistico delle quote di case economiche inserite nelle trasformazioni private di mercato, imposte o concordate. A volte ci sono programmi di imposizione concepiti male che di fatto rallentano la produzione di case, come quello di New York City per qualunque trasformazione di oltre dieci unità che richiede una variante. A Boston lo Inclusionary Development Program (IDP), con criteri urbanistici di dieci unità identici a quelli di New York, appare però più flessibile. Percentuali di alloggi economici minori, livelli di reddito più alti, costruzioni separate dall’intervento principale, trasformazione delle quote in contributi monetari invece di alloggi dentro quelli a libero mercato. Il documento ufficiale della città di Boston recita chiaramente che «l’amministrazione fissa i criteri IDP in misura tale da assicurare la realizzazione di alloggi per fasce definite di reddito, senza vincolare in altro modo gli operatori privati dal realizzarne altri di mercato di cui pure la città ha bisogno».

Negli ultimi anni Seattle ha varato un programma Mandatory Housing Affordability nelle zone n variante di densificazione. Si tratta di un piano troppo recente perché se ne vedano effetti sui dati del censimento 2020, ma secondo l’amministrazione è in pieno svolgimento. Come Boston, e a differenza di New York, il programma di Seattle prevede basse percentuali di alloggi economici nelle trasformazioni urbane di mercato, con una certa maggiore rigidità però sulle fasce di reddito ammesse. Seattle prevede anche la possibilità di un contributo economico dell’operatore invece dell’inserimento degli alloggi economici nella medesima trasformazione di mercato. Nel processo di trasformazione urbanistica occorre poi inserire una serie di altri elementi, dal verde alle scuole alle infrastrutture. E occorre una analisi approfondita del sistema di pianificazione che in teoria potrebbe anche ostacolare anziché promuovere trasformazioni ad elevata densità: dagli standard a parcheggio, agli indici di copertura, alle altezze e arretramenti, masse e così via. A Minneapolis, per esempio, sono stati eliminati i criteri minimi obbligatori per la sosta in tutta l’area urbana a partire dal maggio 2021. San Francisco l’aveva fatto nel 2019. Mentre New York City, per contro, continua a imporre spazi di sosta per gli abitanti e gli esercizi commerciali anche in molte aree ben servite dai trasporti pubblici.

Alcuni ostacoli procedurali, come decisioni e valutazioni ambientali discrezionali di uffici e consigli eletti, dovrebbero essere sostituite da criteri standard. A Boston, per esempio, è diventato pratica corrente il processo di verifica e approvazione dello Zoning Board of Appeals per approvare le varianti di questo tipo. Un metodo pratico ed efficace ma a quanto pare basato su regole che non garantiscono in tempi di non immediato futuro. Comunque le città che arrivano ai propri obiettivi di realizzazione di case sono indubbi i vantaggi sociali e di sviluppo locale. Una crescita distribuita nei quartieri è ottima opzione: abitazioni nuove, elevata densità, risposta ai bisogni anche del mercato e di certi stili di vita. Ottima per l’economia e l’innovazione culturale. Non ultimo, visto che chi abita in città usa meno l’auto, cammina e si sposta coi mezzi pubblici di più, consuma meno energia per riscaldare e condizionare le proprie case compatte, tutto concorre a contenere gli effetti del cambiamento climatico. Considerata complessivamente e al netto di alcune complicazioni che ne possano minare l’efficacia, la crescita distribuita offre probabilmente l’unica speranza di affrontare il problema della casa economica. E mano mano più città adottano questo modello probabilmente al censimento 2030 la quantità di quelle dense in tabella sarà meno scarna.

da: Manhattan Institute, 20 gennaio 2022 – Titolo originale: How Large Cities Can Grow Denser and Flourish: What the 2020 Census Reveals About Urban Sprawl – Traduzione di Fabrizio Bottini – Qui il testo originale con note riferimenti tabelle e pdf scaricabile https://www.manhattan-institute.org/kober-cities-density-2020-census-data-reveal-urban-sprawl

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