La visione politica del camminare urbano

Foto F. Bottini

Il giovane scrittore di fantascienza Ray Bradbury passeggiava con un amico dopo mezzanotte a Los Angeles quando la polizia li fermò a Pershing Square. Apprezzando molto quel semplice vagare per strada di notte, dopo quell’esperienza a dir poco molto negativa, a cui ne seguì anni dopo un’altra simile, Bradbury finì per scrivere The Pedestrian [it. Il Pedone, 1961, traduzione di Carlo Fruttero], un racconto su chi cammina e che specie di notte viene criminalizzato, socialmente stigmatizzato. Come ci spiega il suo biografo Jonathan Eller, Bradbury «ci mostra il pedone come punto di soglia o indicatore dei diritti urbani, quando questi diritti vengono messi in dubbio significa un rischio per la libertà di tutti». Come ci ricorda questa esperienza dello scrittore, anche un cittadino apparentemente del tutto rispettabile se cammina finisce per essere visto dal potere come una minaccia, fa qualcosa che deve essere scoraggiato, come con tutte quelle politiche urbane anti-pedone, che rendono la città impraticabile camminando.

Ma come oggi sostiene Matthew Beaumont nel suo The Walker, da poco uscito per Verso, vagabondare a piedi per le città diventa oggi più che mai necessario: «è il camminare che mi fa sentire vivo. Mi immerge nella vita della città, nel suo flusso continuo di energia, e al tempo stesso sottilmente distaccato da esso». The Walker fa propria la causa del passeggiare virtuoso, morale, filosofico, così come nella storia della letteratura, dall’Edgar Allan Poe di L’Uomo della Folla [The Man in the Crowd, 1840] alla Virginia Woolf della Signora Dalloway [Mrs. Dalloway, 1925]. The Walker ci chiede di uscire a piedi, e di considerare questo nostro muoversi come un atto politico, di resistenza alla privatizzazione montante, ad una vita moderna sempre più sorvegliata.

Camminare possiede evidentemente a suo parere una qualità spirituale. Perché questo significato?

Camminare è bellissimo perché mette in contatto il corpo col mondo, e non certo nel modo mediato e virtuale della nostra esperienza attuale, ma molto più diretto, vivace, interattivo. Come sostenuto dai filosofi per secoli, camminare ispira importanti riflessioni: costruisce consapevolezza itinerante, cosa che ritengo immensamente creativa e produttiva. Da ragazzo ho scoperto il fascino del camminare un po’ prima dei vent’anni, non tanto a Londra, ma in un promo tempo a Roma, la prima volta che ci sono andato. Non avevo molti soldi all’epoca, e sono finito a vagare per la città di notte, finendo per imparare enormemente dall’esperienza. C’era anche un po’ di paura e di ansia a volte. Rendeva consapevoli del fatto che la città di notte è diversa dal giorno, cosa ovvia ma da capire. Non si tratta semplicemente di cogliere un rovescio della medaglia notturno: è l’atmosfera a cambiare, l’avvertire sensoriale di una città trasformata.

Molta parte del libro è focalizzata sul tipo del flâneur, un pedone particolare generalmente maschio, bianco, senza disabilità. Cosa significa per chi non corrisponde a quel modello?

Il libro certo ha un grosso debito col flâneur emerso come archetipo dalla Parigi ottocentesca. Ma anche se per certi versi resta auspicabile consentire al pedone di assorbire la città nel senso di immergersi ma mantenere un certo distacco, certo resta un privilegio. Per donne, persone di colore, e forse ancora di più per portatori di disabilità, specie disabilità fisiche, accedere alla fruizione pedonale della città è limitato o impedito. Ma la mia città del sogno è certo una città in cui chiunque, e non solo le persone come me, possano sentirli libere di camminare. Lasciando per un attimo perdere anche il libro, e riflettendo invece di politiche e sociologia anziché letteratura, dovremmo impegnarci per aprire di più gli spazi urbani a donne, persone di colore, disabili. Ciò significa fare dell’accessibilità il punto di partenza di tutto, togliere quel coprifuoco morale oggi imperante, che non fa sentire piena cittadinanza ai gruppi emarginati di notte. Ma occorre anche capire quanto per il camminatore maschio della storia letteraria esistano sfide da affrontare. Ecco perché per il libro ho scelto titoli dei capitoli in gerundio: Partendo, Inciampando, Capitombolando. Anche chi si trova abbastanza a proprio agio fatica un po’ a conquistarsela la città, e questo ci porta a riflettere anche di più per chi non ha il medesimo privilegio.

L’esperienza del camminare in città diverse risulta drasticamente diversa. Il suo punto di vista rispecchia quello di Ray Bradbury che vedeva nel pedone una «specie indicatore» di salute urbana: cosa ci può dire nella comparazione tra varie città?

Se prendiamo sul serio il ruolo del pedone di «specie indicatore» ci può dire parecchio in termini di ecologia sociale e politica. Credo sia quasi urgente il comparare diverse città, per valutare la varietà di esperienze del camminare, e di quanto o meno le medesime città non promuovano invece l’automobile. Ho l’impressione che il pedone venga sempre più marginalizzato, nonostante quella patina di urbanistica e politiche locali ambientaliste di oggi. Quando siamo dentro un’auto, protetti da un guscio di metallo, non si tratta solo di badare meno al contatto fisico con la vita, ma proprio di avvertire una specie di impulso omicida impossessarsi di noi. La polarizzazione tra pedoni e automobilisti viene esasperata da scelte che mettono l’auto al primo posto penalizzando chi cammina, oppure affrontando solo superficialmente i problemi della mobilità pedonale e ciclabile, quella di chi teme di più la distruzione dei trasporti sostenibili.

Nel libro lei sostiene come il camminare venga minacciato da comportamenti come quelli distratti dallo smartphone che cambia il modo di muoversi. Perché di tratta di un problema?

Mi preoccupa davvero, per ragioni sia politiche che ambientali in senso lato. Politicamente credo che funga da schermo tra noi e ciò che sta accadendo nelle nostre città: ad esempio che tutti gli interventi verdi paiono insufficienti, o la marginalizzazione del pedone, o il modo in cui gli edifici nell’ambiente urbano vengano distrutti, ricostruiti, modificati, soprattutto privatizzando. Se non ci guardiamo attorno camminando, semplicemente ci sottraiamo al nostro ruolo nel luogo, di monitorare le sue trasformazioni in termini non democratici, a mio parere.

Da un punto di vista ambientale, se ci lasciamo risucchiare ne mondo virtuale a spese di quello fisico, se ci spostiamo per la città immersi dentro il telefono, scordiamo il modo di sottrarci all’interazione continua. Ci sottraiamo agli odori, visioni, suoni della città. Dimentichiamo quanto divertimento e stimolo serbi interagire direttamente con le persone per strada. Può apparire pretenzioso, ma camminare su una via affollata rappresenta una vera e propria forme di arte. La ritengo una esperienza coreografica di modernità metropolitana, un balletto a cui partecipiamo tutti, individualmente e collettivamente, quando passeggiamo per strada, che consiste non solo nello schivare e zigzagare per evitare collisioni, ma comporta la consapevolezza di alcuni comportamenti e valori democratici o civici, cortesia, gentilezza.

da: Metropolis, 17 gennaio 2022 – Titolo originale: The Literary and Political Dimensions of Walking- Traduzione di Fabrizio Bottini

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