Un Grande Parco del Popolo per New York (1851)

Tra i principali argomenti all’ordine del giorno di discussione cittadina e articoli di giornale a New York, spicca il nuovo parco proposto dal Sindaco Kingsland. Mestamente la città si è contentata sino ad oggi di qualche fazzolettino di spazio: semplici chiazze di verzura negli slarghi, con la convinzione errata che potesse trattarsi di parchi. La quarta città del mondo (che con questi ritmi di crescita diventerà presto la seconda) metropoli capitale economica di un continente vasto tanto da affacciarsi su due oceani, sinora non è riuscita a trovare spazio abbastanza per dare ai propri cittadini (persone che per la maggior parte dell’anno ci abitano) un polmone di aria pulita, per la ricreazione, il sano movimento, sentieri per cavalcare e viali per un calesse, e tutti quei piaceri a cui hanno riluttantemente rinunciato abbandonando la campagna e trasferendosi da tanti anni, forse per sempre, in città. Poche migliaia, più fortunate del resto, riescono a scappare di nuovo in campagna per un paio di mesi, a cercare pace del corpo e dell’anima, tra fruscianti verzure e verdi pascoli, o inspirare nuova vita con le fresche brezze marine della costa. Ma tutti gli altri nel frattempo restano pur sempre in città. La popolazione stabile di cinquecentomila anime non si muove da lì, e costantemente cresce. Ogni nave porta un carico vivo dalla sovrappopolata Europa, che va a saturare le già sovraffollate case d’affitto; ogni vapore scarica centinaia di nuovi arrivati che si mescolano alle folle delle vie principali.

Alberghi traboccanti, strade traboccanti, estati soffocanti, affari seguiti freneticamente come se si trattasse di un gioco d’azzardo, piaceri coltivati finché chi vi è dedito crolla esausto: cosa rimane in questo quadro della vita di città intensa sino alla follia, per il suo contrario, per la quiete? Il Sindaco Kingsland spalanca alla vista di chi abita questo arido deserto di affari e dissoluzione, un’oasi verde per il riposo del corpo e dell’anima della città. Dice ai cittadini della febbrile metropoli, come direbbe loro qualunque persona intelligente che conosce le città del vecchio continente, che New York, e in genere tutte le città americane, volontariamente e ottusamente vivono in uno stato di totale negazione della natura e dei suoi innocenti piaceri. Ciò accade perché l’uomo civile deve vivere in città: e vale purtroppo anche per i suoi bambini che nascono e crescono senza mai vedere un raggio di sole all’orizzonte, e quanto pesa per loro questa miseria della forzosa separazione dalla bellezza e salubrità del contatto coi giardini e i verdi prati. Il sindaco ci dice che la frescura del verde non deve per forza sparire dentro i limiti della città, che mezzo milione di persone hanno il diritto di chiedere la «grande felicità» dei parchi e campi aperti, insieme a strade lastricate e lampioni a gas.

Adesso che la pubblica opinione ha pienamente accettato la necessità di un parco, i parsimoniosi replicano che la superficie di sessantacinque ettari proposta dal Sindaco Kingsland è stravagantemente esagerata. La solita miopia dell’economista! Se la crescita futura della città dovesse adeguarsi agli angusti confini fissati da questa loro visione, smetterebbe immediatamente di essere l’emporio commerciale del paese. Se fossero loro a adottare un giovane gigante questo crescerebbe da subito esibendo il miserabile spettacolo di un magnifico sviluppo le cui estremità spuntano però nude da qualunque panno si sia pensato per ricoprirle. Questi pavidi contribuenti nervosissimi per ciò che hanno in tasca e le spese municipali, dovrebbero studiare meglio i conti di chi tra loro con mirabile preveggenza ha concepito la ricchezza di materiali che oggi esibisce la sede del municipio di NewYork. Chiunque conosca la città si è chiesto magari sorridendo le ragioni di quella apparente perversione di gusti che ci ha lasciato in eredità quell’edificio: nella zona più significativa, destinato alle funzioni pubbliche più nobili, con tre facciate di marmo bianco e una quarta in ruvida grezza arenaria. Ma chi nota quella incongruità sa anche bene come fu in realtà dettata da una certa miope frugalità dei consiglieri componenti il comitato per la costruzione, i quali decisero che sarebbe stato uno spreco usare marmo bianco anche sul retro di City -Hall «Visto che quel lato sarà guardato soltanto da chi vive in periferia».

Ringraziando ancora il Sindaco Kingsland di cuore per la sua proposta di nuovo parco, la nostra unica obiezione è invece che sia troppo piccolo. Sessantacinque ettari di parco per una città che presto si troverà ad ospitare tre quarti di milione di abitanti! È giusto un campo da gioco per bambini. Là dove Londra ha duemilaquattrocento ettari soltanto dentro i confini della città o nella periferia immediatamente accessibile, aperti al godimento della popolazione, tra cui i grandiosi magnifici scenari a parco come Kensington o Richmond, oppure a lussureggiante giardino di piante rare, serre, aiuole e cespugli come al National Garden a Kew. Parigi ha il Giardino delle Tuileries, sui cui viali si allineano piante di arancio antiche di duecento anni, aiuole ingentilite dai fiori più colorati, freschi ciuffi di arbusti che si allungano sin sui Campi Elisi, e tutto nel pieno cuore della città. E poi al di fuori ci sono Versailles (milleduecento ettari di parco e giardino imperiale), o Fontainbleau, e St. Cloud, con l’idillio rurale e bellezza regale che l’opulenza profusa dei monarchi francesi ha potuto costruire, a disposizione del popolo di Parigi. Vienna ha il grande Prater, per far posto al quale dovremmo sgombrare quasi tutta la New York «edificabile».

Monaco ha uno stupendo giardino di delizie da duecento ettari, che ne fa una Arcadia per i cittadini. Anche centri minori possiedono spazi pubblici verdi di dimensioni probabilmente inimmaginabili ai nostri miopi economi, che continuano a negare «il verde» a New-York; Francoforte, per esempio, è circondata da magnifici giardini, realizzati sulla base degli antichi bastioni della città, giardini pieni delle più gradevoli piante e fiori, artisticamente disposte su passeggiate lunghe anche tre chilometri. Se pensiamo che l’amministrazione attuale della città debba realizzare un Parco del Popolo, un polmone, luogo di salubrità e divertimento per un centro da mezzo milione di abitanti, siamo certi che non ci si limiterebbe alle superfici sinora proposte. Al minimo si dovrebbe destinare un’area di duecento ettari per i bisogni futuri di una città del genere.

Duecento ettari collocati fra la Trentanovesima Strada e il fiume Harlem, che comprendano diversi tipi di terreni, una gran quantità dei quali oggi ridotti a discarica così che sia possibile acquisirli per una somma di circa un milione di dollari. In un’area del genere c’è spazio a sufficienza per ampie superfici a parco giardino e prato, con tutta l’ampiezza e atmosfera e bellezza dei pascoli, profumi e freschezze della natura. Nel mezzo troverà posto un importante bacino idrico di scorta delle acque dell’acquedotto del Croton, composto di piacevoli laghetti di acque limpide a coprire diversi ettari e ad accrescere il fascino delle parti boschive con il miglior contrasto naturale. In un parco siffatto i cittadini possono spostarsi in calesse o in sella al cavallo, possono godere le gioie materiali del paesaggio di campagna e dei sentieri, dimenticarsi per un momento il clangore delle strade lastricate e i riflessi delle muraglie di mattoni.

Il pedone scoprirà quiete e percorsi nascosti quando cerca solitudini, o ampi viali colmi di migliaia di facce serene, se cerca allegri. Il cittadino propenso alla meditazione ci andrà la mattina a dialogare con gli alberi sussurranti, lo stanco uomo d’affari il pomeriggio o la sera per un’ora di tranquillità mescolandosi al «resto del mondo» nello spazio aperto. Le tante bellezze e utilità che gradualmente crescerebbero in un parco come questo, in una grande città come New York, si immaginano immediatamente e quasi forzosamente. Dove altro troverebbero adeguata posizione i più nobili capolavori d’art, statue, monumenti, edifici commemorativi al tempo stesso dei grandi uomini del paese, della sua storia, del genio dei suoi maggiori artisti? Nell’ampia area verdeggiante troveranno posto, man mano cresce la ricchezza della città, giardini d’inverno in serra come quello del grande Crystal Palace, dove tutta la cittadinanza possa godere la crescita di palme o alberi da spezia tropicali, mentre fuori nel medesimo istante all’esterno gruppi di altri scivolano silenziosi in slitta sulla superficie coperta di neve di viali invernali tanto simili a quelli della campagna. Giardini zoologici come quelli di Londra o Parigi, si potrebbero organizzare grazie a finanziamenti privati o intervento pubblico, per la gioia di grandi e piccoli a migliaia a studiare la storia naturale illustrata dai più singolari animali selvatici della terra, che quasi ritrovano la propria casa negli spazi organizzati come se fossero la loro giungla natale. Un parco dove la Società Orticola e quella Industriale possano tenere le proprie mostre annuali, o aver luogo le grandi esposizioni d’arte in spaziosi edifici ospitati all’interno, in una situazione assai più adeguata di quella del clangore e rumore delle affollate strade del centro.

E non abbiamo ancora menzionato il ruolo sociale di un tale grande parco per New York. Mentre si tratta in realtà della parte più interessante dell’intera faccenda. Fatto non poco rilevante quello che le nostre super democratiche tendenze democratiche in America, considerino al contrario pochissimo le più intelligenti tendenze sociali. Tra gli argomenti discussi sia dai favorevoli che dai contrari al nuovo parco, nessuno pare più trascurato di quello sociale. È davvero al tempo stesso sia curioso che divertente notare la posizione assunta da un lato dalla gran massa degli abitanti, secondo cui il parco viene pensato per i «pochi privilegiati» che lo percorrono sui loro eleganti calessi, e d’altro canto l’opinione dei più agiati e raffinati secondo cui il medesimo parco poi sarebbe «usurpato dal popolino rozzo». Colpa dei nostri compatrioti repubblicani che paiono capire tanto poco delle influenze benefiche della bellezza su tutto ciò che è natura e arte, quando essa viene goduta dalle migliaia e migliaia e migliaia di persone senza alcuna distinzione di classe! Non hanno mai visto quanto in Francia o in Germania la popolazione delle città trascorre pomeriggi e serate insieme nei magnifici parchi e giardini pubblici.

Quanto ascoltino insieme la stessa musica, respirino la medesima atmosfera d’arte, godano dello stesso paesaggio, crescano a maggiore ricchezza sociale influenzati dalla facilità di incontro nello spazio e nella bellezza che li circonda. In Germania, specialmente, si nota quanto dal culmine al livello più basso della scala sociale ognuno partecipi del godimento comune: il principe seduto tra gli alberi su una sedia imbottita, davanti a un tavolo di legno, che sorseggia un caffè o una bevanda ghiacciata, libero dai pensieri dello stato e da qualunque formalità identico a un suddito qualunque. Le convenzioni da salotto sono troppo anguste per i grandi spazi del verde nel giardino, e si può essere sereni e socialmente liberi tra le migliaia di altri e le loro influenze a volte inattese, senza l’indicibile complicazione dell’essere o meno presentati alla compagnia.

Certi dubbiosi della socialità arroccati dentro la cittadella esclusiva dell’America repubblicana, non comprendono né il popolo né il suo destino. Se li avessimo ascoltati non avremmo quei meravigliosi battelli a vapore che solcano fiumi e laghi, tanti luoghi frequentati da milioni di persone non avrebbero quei divani di velluto, splendidi specchi, lussuosi tappeti. Costosi e rari accessori della civiltà, ci avrebbero spiegato i nostri economi, possono essere usati esclusivamente dalle famiglie più agiate e privilegiate, la democrazia del paese, di chi fa cento chilometri con mezzo dollaro, riuscirebbe solo a calpestarli e sciuparli.

Ma vediamo invece certi nostri eterei quasi mostruosi palazzi o alberghi con le loro lussuose tappezzerie purpuree rispettatissime dalla gran maggioranza di chi ne fa uso. E vada anche per gli uomini di poca fede riguardo alla capacità di assimilare una certa cultura da parte di chi non ne ha alcuna. Anche nelle fasce più basse del senso di libertà e di istruzione delle masse in Europa, possiamo notare l’influenza elevatrice del godimento diffuso popolare delle gallerie d’arte, biblioteche pubbliche, parchi e giardini, che hanno innalzato il livello di civiltà sociale e culturale sino a livelli decisamente superiori a quelli della nostra America repubblicana. Ma noi americani dobbiamo ancora intraprendere questa strada dell’erudizione del popolo, che forse ci appartiene più che ad altri. Molto repubblicana nel concetto e orientamento. Si fa carico dell’istruzione del popolo là dove termina la comune educazione scolastica o il sistema politico elettorale, ed eleva il lavoratore al medesimo livello dell’uomo di mezzi e conoscenza. La componente sociale e artistica della natura di ciascuno è latente, il lavoratore è già un implicito gentiluomo, non certo per il possesso di denaro o bei vestiti, ma attraverso l’influenza raffinata della cultura intellettuale e morale.

Spalanchiamo dunque le porte delle nostre biblioteche e gallerie d’arte, o autentici repubblicani! Costruiamo palazzi da cui la conoscenza si possa diffondere tra gli uomini e non restare segregata tra le mura anguste di qualche istituzione. Piantiamo vasti parchi nelle nostre città, spalanchiamone i cancelli ad una nuova alba del popolo tutto. Come la luce del pieno giorno cancella ogni angolo di tenebre, così il vero splendore dell’anima che sono istruzione e cultura aboliranno le piaghe della democrazia, il timore che deriva dall’ignoranza e dall’esclusione, dall’assenza di fiducia nelle possibilità della repubblica, che invece si spalancano per i decenni a venire. Finché un nuovo popolo saprà darsi volontariamente un sistema educativo che comprenda (insieme a una completa libertà individuale) non solo le comuni scuole di rudimentale conoscenza, ma il godimento per tutte le classi sociali dei più alti livelli di letteratura, arte, scienza, ricreazione e piacere.

da: Rural Essays, George Putnam & Co., New York 1853 – Titolo originale del capitolo: The New York Park – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini

In questo sito si veda anche la traduzione italiana Relazione di Progetto vincitore al concorso per il Central Park così come pubblicata dal New York Times 1 maggio 1858

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