Domiamo la scimmia che c’è in noi

cesano_fiori

Foto J. B. Gatherer

Secondo gli opinionisti informati ma favorevoli (per motivi che non stiamo qui a questionare per il momento) al cosiddetto «sviluppo del territorio» o dispersione urbana, quelli che invece sono parecchio critici dello sprawl non hanno mai capito il senso di quel che dicono. Insediarsi in grandi spazi aperti sarebbe bisogno innato dell’uomo e della sua famiglia, cosa dimostrata dai fatti, per secoli e secoli, assai prima delle automobili e delle villette contemporanee. Si tratta di considerazioni anche sostenute, spesso, da ricerche, oltre che ovviamente dall’occhio di riguardo al portafoglio, e chi ne esce peggio è il tipo di ambientalismo un po’ nimby o comunque ideologico, che spesso inizia e finisce con qualche slogan, dietro a cui c’è poco più che una coazione a ripetere. In entrambi i casi approcci molto istintivi, che poi si creano teorie e logie su misura, roba da scimmie più che da esseri senzienti, detto così molto brevemente.

La destra dello sprawl però ha dalla sua l’istintivo, poi teorizzato, sostegno a spada tratta di un certo formato familiare, di rapporti di lavoro, di idea del territorio e del mondo in generale. Quel mondo in cui occupano un posto centrale le schiere di papà mamma bambini, spazio privato, consumi materiali come motore di tutto, un’idea di libera scelta del tutto ignara, almeno a parole, dei pesanti condizionamenti esterni che da almeno un secolo il mitico «mercato» induce volenti o nolenti in tutti noi. La libertà di scegliere di muoversi in automobile quando l’alternativa è non muoversi affatto, o quella di dotarsi di una miriade di aggeggi e servizi privati a livello familiare quando on ne esistono o se ne sono strumentalmente cancellati a livello urbano, di abitare nella casa unifamiliare con giardino sostanzialmente spinti dai prezzi inaccessibili di altre soluzioni. In altre parole, i nostri teorici sbilanciati sul neo-senso comune, navigano il mare della conoscenza restando saldamente e strumentalmente ancorati a pregiudizi ideologici, né più né meno degli ambientalisti un po’ ingenui da mettere alla berlina.

Ma ben vengano queste pur faziose teorie (come tutti gli studi, del resto), visto che considerate in un’altra prospettiva sono di grande utilità proprio nel sottolineare la stupidità altrui nel sostenere male, malissimo le proprie idee, credendo basti stare dalla «parte giusta». E invece non solo non basta, ma non esiste proprio, la «parte giusta», almeno nelle forme semplicione e frescaccione che quasi sempre finisce per assumere quando certe idee diventano moda, manierismo, piccoli interessi di bottega, e lentamente finiscono per svuotarsi di ogni senso, salvo quello delle buone intenzioni, di cui come già avvertivano i monaci medievali sono lastricate le vie dell’inferno. Adesso, alla serie delle meritate docce fredde per l’ambientalismo urbano facilone si aggiunge l’assalto al medesimo approccio da un tanto al quintale al km0, alla «dieta delle cento miglia» basata sui bacini alimentari locali, ma spesso assai banalizzata da stampa e comportamenti pratici.

L’obiettivo è quello di sparare a pallettoni sulla croce rossa, rappresentata stavolta non dagli urbanisti direttamente preoccupati per il consumo forsennato di territorio e la privatizzazione dello spazio, ma dal movimento per l’agricoltura urbana, si tratti degli orti di quartiere o dei più ambiziosi programmi a vari stadi tecnologici per integrare produzione, distribuzione, consumo di alimenti freschi a chilometro zero. Due aspetti della medesima questione, viene subito da osservare, visto che entrambi si legano a doppio filo alla pianificazione del territorio, al consumo di risorse ambientali, alla gestione e distribuzione della ricchezza. I critici conservatori evocano la superiorità del modello globalizzato attuale, quello che fa trasportare una rapa, una banana, una testa d’aglio o un pesce da un continente all’altro, magari in cargo aereo, e sforna direttamente sulle tavole del nostro quartiere ogni genere di prodotti freschi in ogni stagione. Insomma i cosiddetti «localovori», ovvero chi pratica o sostiene una cultura del chilometro zero, sarebbero una masnada di benintenzionati imbecilli. E c’è da dire una cosa: hanno ragione, è esattamente così, siamo degli idioti.

Siamo degli idioti quando facciamo la solita equazione, la più diffusa, quella che banalizza la filosofia Slow Food agli agriturismo per sposalizi in campagna. Forse val la pena ricordare come anche il racconto di un anno a chilometro zero della coppia Smith-MacKinnon, autrice del seminale Plenty, fosse in sostanza un percorso a ostacoli di sopravvivenza militante, o poco più, per quanto appassionante e divertente. Ribatte invece il critico The Locavore’s Dilemma, che è proprio per uscire da certe strettoie, alimentari e di qualità della vita in genere, che i nostri antenati hanno pazientemente costruito la rete, già ampiamente lodata da Marx in poi, della distribuzione mondiale. Scavalcando così tutti i problemi di carestia, siccità, inadeguatezza dei terreni, e poi gusto, apporti alimentari, proprietà medicinali, difficoltà tecniche economicamente insormontabili. Anche noialtri che proviamo faticosamente a fare i progressisti, qualcosa però forse l’abbiamo capita: i critici conservatori della filosofia del km0 non la raccontano giusta, perché come già i loro colleghi di centrodestra pro-sprawl si dimenticano per strada un bel pezzo della questione: la città, che con l’agricoltura urbana avrà pur qualcosa a che fare, o no?

È almeno dai tempi della città giardino utopica, che pur senza ideologicamente buttar via la rete del commercio nazionale e oltre (basta ricordare le analisi globali di Kropotkin, per esempio) si introduce strutturalmente l’agricoltura nello spazio metropolitano. Nell’epoca immediatamente successiva alla prima guerra mondiale, il movimento britannico new town, evoluzione a modo proprio di quello della città giardino, propone addirittura un modello di ricostruzione nazionale interamente basato sull’equilibrio città-campagna proprio dal punto di vista delle attività produttive. Le dittature totalitarie europee, fascismo e nazismo, coi loro villaggi rurali, il decentramento industriale, le politiche antiurbane, in fondo cercavano autoritariamente nuovi equilibri. E nella Tennessee Valley Authority del riformismo americano, pur orientata a un modello produttivo territoriale industrialista antenato di quello attuale, proprio dall’intuizione di una crisi anche conoscitiva dell’equilibrio città/campagna, scaturisce nel 1937 il termine sprawl.

Vanno letti in questa prospettiva tutti i movimenti attuali per riavvicinare l’ambiente urbano a vari tipi di uso agricolo, con l’aggiunta delle conoscenze scientifiche, dei nuovi obiettivi sociali, e qui davvero casca l’asino: chi se la prende, fra gli applausi della destra economica, col modello dell’alimentazione urbana a chilometro zero, dimentica che non di solo pane vive l’uomo, ma anche di tutto il resto. E lo potremmo riassumere, questo tutto il resto, col termine città. Dove la rete delle infrastrutture verdi (identica in questo senso a tutte le altre infrastrutture urbane, materiali e non) svolge ruoli complessi, fra cui quello di produrre alimenti molto a portata di mano. L’utilità di un orto di quartiere non si calcola sulla produzione di pomodori al metro quadro, o sul costo del medesimi pomodori al consumo, né sulla delizia del palato nel mangiarseli. Come ben sanno tutti quelli che vogliono vedere, l’orto urbano del terzo millennio ha un valore sociale, spaziale, ambientale, che si somma a quello del minestrone, ma sicuramente non lo esaurisce.

Però quando si è in malafede, o magari soltanto un po’ chiusi nel proprio orticello mentale (tecnico, economico, di prospettiva) è facile scordarsi certe cose. Come quell’urbanista apocrifo che su una rivista di settore straparlava di sostenibilità, greenbelt agricole e compagnia bella, per poi proporre in una fascia molto prossima al centro metropolitano la coltivazione di …. essenze da agro carburanti! Cose verdi su una mappa, che magari consentono dei bei filari di alberi, ma poi fanno un gran male a tutto il resto, escluso l’ego del progettista. La cosa più importante, sempre, è non ricominciare a confondere la campagna con la città, in una visione fumosa e confusa della storia (ah: il bel tempo andato!) a sostituire la realtà, che è già abbastanza carina da sola. Per chi continuasse a manifestare disturbi psichici, c’è sempre la terapia del lavoro nell’orto o nei campi, sempre in vista di casa propria per non dimenticare dove viviamo.

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