E il suburbio si fece città, davvero?

Foto J.B. Gatherer

C’è un aspetto che tutti i cultori dello sviluppo locale più o meno basato sul «dov’era com’era», specie in aree di progressivo spopolamento e impoverimento, colgono molto vagamente, sempre che se ne accorgano nel loro entusiasmo: quel com’era dov’era fa in qualche modo parte del cocktail della crisi, a volte ne è anzi la componente principale, specie se consideriamo lo strettissimo legame tra forme fisiche e relazioni socioeconomiche. Esiste un sistema territoriale, nelle sue varianti agro-urbane-industriali, entrato in un ciclo discendente o di calma piatta, e di certo parte del motivo è da cercare proprio in quell’impasto socio-spaziale. Solo molto raramente si dà la possibilità di conservare sostanzialmente tutti i fattori spaziali identici, ed è quando del tutto evaporata la società locale, in presenza di valori storici indubitabili, si innesca un nuovo ciclo con nuovi soggetti, ad esempio convertendo ad economia turistico-ricettiva un antico borgo contadino, attraente proprio perché conserva la memoria di quel passato. Ma si tratta di casi rari se non rarissimi, perché spesso la conservazione è poco più che di facciata: soggetti dello sviluppo del tutto diversi dalla società locale originaria, e di fatto anche radicali trasformazioni spaziali (infrastrutture, conversione agricola …) salvo non interessare complessi urbanistici simbolo. Nella generalità dei casi, proprio la cura di conservare qualche tipo di radici e continuità, spinge inesorabilmente all’innovazione, sia sociale, sia spaziale, sia nella composizione dei due fattori.

Urbanizzazione postmoderna

Se non si considera questo aspetto, ovvero se non si prova ad esaminare la questione in termini complessi (come già provavano a fare in fondo i primi teorici della «vita moderna nelle città antiche» a cavallo fra XIX e XX secolo, poi scavalcati dai conservazionisti duri e puri), si rischia di pietrificare e di fatto uccidere la specificità del cocktail urbano che ha reso relativamente vitale e prospero il tipo insediativo sino al manifestarsi della crisi contingente. E non si deve considerare questo approccio complesso solo ed esclusivamente applicabile e doveroso per i centri storici tradizionali, o i cosiddetti «borghi» o paesi di tradizione agricola o paleoindustriale, ma anche estenderlo all’insieme di quanto chiamiamo città, specie nella cosiddetta fascia periferica allargata. Oggi quando si parla di urbanizzazione del pianeta, cosa che a molti sfugge, si parla di tutto quanto è fisicamente modificato per attività umane diverse dall’agricoltura su larghe superfici, ovvero tipi insediativi diversissimi, che vanno dalla città tradizionale, ai modelli segregati di downtown ad elevatissima densità e suburbio disperso o sprawl, e dentro a questi modelli di massima le ulteriori articolazioni del mix socioeconomico che possiamo chiamare quartieri borghesi, o slum, o distretti produttivo-commerciali ricchi e poveri, e via dicendo. Se per le zone centrali oggi se non altro il modello della gentrification è discusso, contestato, a volte programmato e a volte contrastato con vari strumenti e obiettivi complessi, un po’ meno la medesima cosa appare nel caso delle «periferie» in senso lato. Specie per quelle sterminate di prima colonizzazione della città dispersa, che invece meriterebbe maggiore attenzione.

Retrofitting: è una parola seria?

Da quando si è manifestata la crisi del modello socio-ambientale del classico suburbio automobilistico-familista di era industriale, ovvero è emerso il tema della «povertà suburbana», poi ribadito dall’esplosione della bolla edilizia, se ne sono dette di tutti i colori. E in sostanza la ricetta che ne emerge, nei migliori casi, è una specie di cocktail tra le ricette elitarie-liberali del guru Richard Florida (ricette che per inciso paiono teoricamente evolversi con una velocità davvero incompatibile con la loro applicazione pratica), e l’intuizione anni ’90 di quella specie di Carta d’Atene architettonica rinnovata, autobattezzata New Urbanism. In sostanza, secondo i casi locali e le specifiche politiche messe in campo dalle amministrazioni, si tratta di procedere a una sorta di riuso critico degli spazi esistenti promuovendo l’insediarsi di attività post moderne in contenitori più o meno neo-tradizionali, se non altro a scala di quartiere. L’operazione viene a volte etichettata suburban retrofitting, dal titolo di un noto studio sul tema, e i passaggi paiono superficialmente abbastanza ragionevoli, in sintesi: attirare nuovi soggetti, sia professionali che imprenditoriali che figure sociali, predisponendo luoghi accoglienti, e mettere in campo strategie urbanistiche di medio periodo perché anche altri spazi a cerchi concentrici possano con le proprie forze e investimenti diffusi (per esempio delle famiglie e delle imprese già presenti) adeguarsi coerentemente. Parrebbe qualcosa di concettualmente simile agli interventi edilizi di riconversione energetica, rinnovando isolanti, impianti, coperture, reti, ma resta da chiedersi se così si riesca davvero a «costruire città», oppure ci si limiti (e per molti pare sia proprio quello l’unico obiettivo) a mantenere elevato il valore immobiliare nominale. Perché il problema non sono le politiche in sé, ma chi poi le interpreta come se fossero un manualetto, riproducendole meccanicamente altrove e combinando guai indicibili.

Riferimenti:
David M. Levitt, NYC’s Northern Suburbs Get Urban Makeover With Apartment Towers, Bloomberg, 25 luglio 2017

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