È la città l’argine alla pandemia

Foto M.B. Style

Era in agguato da tempo ed è puntualmente quanto letteralmente esplosa nel giro di poche settimane di emergenza sociosanitaria globale, la retrotopia ruralista (peraltro contro qualunque logica e riscontro oggettivo) pronta a puntare il dito sulla metropoli corrotta e malata, la cui stessa natura di conglomerato denso di relazioni la rende focolaio infetto per antonomasia. A nulla vale constatare come siano invece proprio le città ed esprimere la maggiore resilienza all’assalto della malattia: dalla ricerca di una cura, alla messa in campo di provvedimenti sistematici di prevenzione, all’adeguamento sociale e scientifico-tecnologico delle attività umane e degli spazi dentro cui si sviluppano. Cancellando inopinatamente una serie di decenni di progresso sanitario della metropoli, che l’hanno saldamente collocata parecchio sopra gli ambienti suburbani-rurali quanto a qualità media dell’abitare e dell’ambiente, aspettativa di vita, prospettive individuali e collettive di realizzazione, i tradizionalisti negazionisti di ritorno (e a loro insaputa di solito) ripetono l’ancestrale mantra: la città è il male, la campagna il bene. Sulla base di considerazioni che fuori dall’isteria della strage da pandemia sarebbe facilissimo bollare sorridendo come assurde: in campagna «c’è più spazio» e soprattutto non esiste la «frenesia della vita moderna» che induce a mescolarsi, consumare compulsivamente, spostarsi di qui e di là per i propri ed altrui affari. Una montagna di cretinate senza capo né coda.

La realtà dell’idillio arcadico

Ricordiamo tutti probabilmente la contrapposizione classica città-campagna socio-ambientale-culturale-economica ottocentesca così come riassunta nelle Calamite di Ebenezer Howard: concentrarsi vuol dire ricchezza, relazioni, stimoli, ma anche criminalità, pessime condizioni sanitarie, poco spazio per la sosta e la riflessione. Mentre la campagna è il luogo del benessere fisico ma accompagnato dalla povertà, dall’ignoranza, da condizioni di lavoro durissime. Con la suburbanizzazione (che dell’utopia della Città Giardino è il portato pratico) automobilistica novecentesca, e in parte la meccanizzazione agro-industriale, le antiche piaghe del mondo rurale si sarebbero parecchio affievolite. E infatti proprio a quella sorta di campagna ideale, o a qualcosa di molto simile integrato dalle telecomunicazioni, guarda chi oggi chiede a gran voce un «ritorno ai piccoli centri» o villaggi che diri si voglia. Probabilmente del tutto ignaro del fatto che proprio la suburbanizzazione di massa automobilistica, e insieme l’industrializzazione dell’agricoltura, hanno livellato parecchio in negativo la situazione ambientale delle aree insediative a bassa densità, con portati anche socio-sanitari preoccupanti come per esempio negli studi di Howard Frumkin. Ma ancora guardando agli aspetti negativi osservati però dal punto di vista del metodo, ci sono oggi in primo piano le carenze della città, diciamo pure le storiche carenze della città, quelle che hanno spinto e spingono alla suburbanizzazione.

La frontiera dello slum

L’insediamento urbano informale per molti versi rappresenta la questione socio-sanitaria della metropoli nelle sue forme estreme, questione pronta a riesplodere ad ogni puntuale o meno emergenza sanitaria. Ma ogni volta che si affronta il problema in modo sistematico, si conferma che lo slum è una sorta di città in nuce che fatica ad esprimere sé stessa in forma più piena e resiliente, più che la forma degradata della metropoli che ci viene proposta da certe culture, e la cosa vale anche per le cosiddette «periferie povere», che dello slum rappresentano in alcuni contesti una variante. E lo conferma uno degli ultimi studi proprio nella prospettiva dell’argine al dilagare del Covid-19 nelle zone più povere: la questione della densità insediativa o della complessità delle interrelazioni pare del tutto assente, se non in forma indiretta quando si parla di inadeguatezza degli alloggi, ma di certo senza che emergano quelle soluzioni da progettisti di architettura che si limitano a chiedere incrementi di superficie privata. Dalle ricerche scientifiche emerge invece la natura tecnica e sociale delle riforme urbane indispensabili, per costruire in sostanza più città anziché meno città, aumentando la resilienza di quartieri che vedono carenze più nell’assenza che nella presenza di urbanizzazione. Intesa, questa, come cocktail di fattori soprattutto economico-sociali, tecnico-sanitari, e di relazione sicura garantita dalle istituzioni. Senza fughe in utopie disperse che lasceremmo molto volentieri ai libri di storia della auspicabilmente superata fase industriale dello sviluppo.

Riferimenti:
AA.VV. Slum Health: Arresting COVID-19 and Improving Well-Being in Urban Informal Settlements, Journal of Urban Health, 24 aprile 2020
Per le questioni socio-sanitarie del suburbio si veda qui Howard Frumkin, Sprawl e Salute Collettiva, 2002

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