È l’accessibilità che conta, non il parcheggio

Foto J. B. Gatherer

Strana cosa i diritti, specie quando non si capisce esattamente di chi sono, a cosa servono, e quando finiscono di essere tali perché calpestano altri diritti (eccome se li calpestano). In principio c’era il diritto ad accedere a un luogo, apparentemente cosa sacrosanta, che distingue il pubblico dal privato, il privilegio dalla democrazia, l’élite dalle masse e via di questo passo. Il problema apparentemente solo tecnico, era di consentire a chiunque di esercitarlo, quel diritto: arrivo, e accedo. Se non ci sono preclusioni la porta è aperta, prego si accomodi, ma qui sorge la complicazione, perché a quanto pare non si va mai da soli in un posto, ci si porta appresso una ingombrante appendice impossibile da «far accedere» in senso proprio. Parliamo dell’automobile, ovviamente, che nelle immagini di solito un po’ sfocate del primo ‘900 si vede arrancare in spazi che erano stati concepiti giusto come sentieri un po’ più larghi per farci passare dei carri, sostando praticamente dove capita, come succedeva da sempre agli altri veicoli su ruote. Ma che rapidamente troverà il modo di rimodellarsi su misura l’universo anche (diciamo pure soprattutto) per quando sta nella condizione a lei curiosamente più congeniale, di «auto-immobile».

Novantacinque per certo

La mobilità dell’auto parrebbe cosa di cui non parlare neppure, ma solo se non si sa sino a che punto si tratti di «ideologia meccanica»: da un punto di vista sociale e urbano il veicolo a motore, è invece qualcosa assai più simile a un edificio, o a un soprammobile, visto che nell’intero arco della sua esistenza – dal 95% in su – se ne sta fermo come un sasso lì dove si trova, ovvero parcheggiato da qualche parte, vuoi in luoghi privati appartenenti al proprietario (box o cortile annesso all’abitazione), vuoi su tutte le altre miriadi di superfici che le sono state messe a disposizione. Superfici a ciò espressamente destinate dalla legge, una legge che pare scritta direttamente da un concessionario di auto: in qualunque luogo, o quasi, si prevedano attività umane, devono essere garantiti requisiti minimi di parcheggio, perché il famoso veicolo fermo il 95% della sua vita, possa lasciar lì traccia imperitura della propria immobilità. E non si tratta affatto di uno scherzetto, dal casuale spiazzo di ghiaia condiviso con qualche carro nel primo ‘900, grazie alle norme urbanistiche siamo via via arrivati alla «normalità» di situazioni che hanno davvero del surreale, basta valutarle da vicino. La Apple per esempio, su iniziativa e forte volontà estrema del suo fondatore Steve Jobs, ha appena completato la vera e propria Astronave Spaziale del proprio quartier generale a Cupertino, un progetto sedicente avveniristico elaborato dallo studio di Norman Foster: ma per le norme sui parcheggi del piano urbanistico cittadino, aree omogenee classificate Corporate/Administrative, si deve mettere a disposizione un posto auto ogni 26,5 metri quadri di superficie.

Milioni di ettari inopinatamente strappati a qualunque cosa

Indici e altre indicazioni urbanistiche forse possono risultare ostiche alla comprensione, per chi di solito pensa a tutt’altro, e quindi forse è meglio esprimersi meglio, su questo esempio e su quel che significa in tutti gli altri casi (ovvero ovunque nel mondo) dove ci sono questi requisiti minimi di parcheggio. Le dimensioni delle piazzole di sosta variano, a seconda delle norme e a seconda dei contesti, per esempio delle dimensioni medie dei veicoli in commercio, ma facendo una media anche internazionale ed escludendo certi eccessi, stiamo attorno a rettangoli di due metri e mezzo per cinque, circa tredici metri quadrati. Solo per le piazzole segnate, perché poi ci sono le corsie di accesso, decesso, eventuale rallentamento e accelerazione per l’immissione in carreggiata, e qui mediamente ce ne vuole altrettanto a veicolo in sosta: avete fatto due conti? Se li avete fatti, scoprite che da qualche parte attorno o magari sotto il complesso dell’astronave Apple (simbolo di «smaterializzazione dei processi») si devono per legge dedicare alla sosta delle auto più superfici di quante non se ne siano realizzate per l’attività. La cosa, un po’ più, un po’ meno, si allarga al resto dell’universo mondo percorso dalla padrona del nostro immaginario novecentesco: interi settori urbani e suburbani ridotti a un tumultuoso oceano di parcheggi, in cui galleggiano piccoli atolli di attività diverse dalla sosta. E il medesimo veicolo fermo, sempre per legge, dovrà avere già una sua fettina di spazio che lo aspetta già, riservata, altrove, nel caso si muovesse da lì nella sua quota esistenziale dinamica del 5%. Andiamo maluccio quanto a logica, vero? E non parliamo di «sostenibilità», per non piangere. Ci tocca riflettere un pochino, sullo «standard a parcheggio».

Riferimenti:
How not to create traffic jams, pollution and urban sprawl, The Economist, 8 aprile 2017

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