Fabbriche e politiche di sinistra

smokestack

Foto M. B. Fashion

Nella nostra epoca mediatica, forse passare dal dire al fare ogni tanto potrebbe essere utile. Nel senso che, oltre a invitare la classe dirigente a «dire qualcosa di sinistra», come spesso si auspica, c’è anche la possibilità di farla concretamente, la cosa di sinistra. Se non altro come strumento per tradurre in pratica e verificare periodicamente gli alti principi ispiratori, che altrimenti rischiano di svolazzare nel nulla. Nelle nostre città per esempio a volte basta guardare dalla finestra, o uscire per le strade dei quartieri non centralissimi, e cogliere quegli elementi di apparente «disturbo» e conflittuali rappresentati da contenitori e attività varie industriali. Disturbo e conflitto iniziano con il contenitore in sé, ingombrante, deforme rispetto a quanto consideriamo urbano in senso proprio, che ci toglie luce, ci impedisce di camminare dritti verso la nostra destinazione con gli isolati più grandi, segrega vaste zone dietro a muraglie in stile militare. E non è tutto, perché anche il contenuto fa la sua parte, oltre e insieme al contenitore: vuoi per l’andirivieni di persone, mezzi, materiali a provocare classica congestione temporanea (i tempi e ritmi della città industriale, già), vuoi in caso di dismissione con l’aura di degrado allargata ai quartieri, l’insicurezza percepita, i nuovi conflitti sociali che quel tipo di evoluzione urbana bloccata induce.

Sono in molti a liquidare certe perplessità, davanti agli scintillanti scenari postmoderni, come «nostalgia delle ciminiere», sostenendo che accelerare dismissione e trasformazione non potrà far altro che bene alla città e alla società, cancellando ogni disturbo e conflitto. Ovvero che il progressismo, la «vera sinistra» si identificherebbero col cambiamento, non certo con la conservazione dell’esistente, o peggio del passato. Ma questa cosiddetta nostalgia delle ciminiere, una certa lettura di scenari urbani, può non essere affatto nostalgica. Basta anche scorrere un po’ a caso articoli e saggi internazionali in materia urbanistica e dintorni, per inciampare di continuo nelle critiche alla segregazione funzionale modernista e ai suoi infiniti guai, alla necessità di concepire ambienti mixed-use, adeguati tra l’altro sia alle moderne politiche di mobilità sostenibile, sia a un’idea di sicurezza da controllo spontaneo su varie fasce di orario da parte di abitanti e utenti. Mentre invece, se andiamo a verificare la gran parte dei progetti di riuso per contenitori e aree industriali dismesse, scopriamo quasi sempre palazzotti residenziali o terziari coi box sotterranei, verde standard progettato e pianificato così così, qualche caricatura di spazio pubblico all’uscita di un supermercato, sopra ad altri parcheggi sotterranei. Spesso con una impostazione da quartiere o office park suburbano, in aggiunta. Ovvero un peggioramento, e non un passo in avanti, rispetto alla composizione originale che si vorrebbe «superare».

Certo quei posti in qualche modo vivono, certo più di un luogo lasciato deserto a bella posta, ma di sicuro non vivono di vita urbana quanto potrebbero, privi di attività degne di questo nome, quartieri dove non passa quasi nessuno che non stia uscendo da casa o ci stia ritornando, dove si va solo se ci si abita, si lavora, si passa frettolosamente per caso o per sbaglio. Cloni di suburbio trapiantati in città, con tutta la loro semplificazione artificiosa, e che da molti punti di vista la «nostalgia delle ciminiere» la fanno venire sul serio: in termini di opportunità di promozione personale, ma anche di composizione sociale, tutto ciò che una autentica idea di mixed-use dovrebbe ispirare. E per tornare all’idea tradizionale di sinistra e di politiche di sinistra, pensiamo invece a quanto certe lotte operaie per conservare il posto di lavoro, e in seconda battuta per conservare il contenitore dentro cui lavorare, hanno arginato il dilagare del modello. Conservare per innovare, o quantomeno mantenere viva la possibilità di crescere e migliorare. Certo, poi si tratta di sfruttarla davvero, quella possibilità, una volta fermata l’invasione degli ultracorpi dello sprawl. Come quando in alcune zone i capannoni rivivono in tutto o in parte, magari senza grandi trasformazioni fisiche o proprietarie, con attività culturali e di ritrovo per il tempo libero specie dei giovani, alternativa alle solite piazze storiche della movida, ormai inflazionate e sovraccariche.

Conservare per innovare ha anche un senso logico più ampio che si applica allo spazio territoriale: la trincea è il luogo da cui si prepara e poi si lancia il contrattacco. Se è vero che gli ultracorpi culturali dello sprawl cercavano di invadere con la loro logica semplificatrice la città densa, la reazione deve e può essere anche preventiva, andando a snidarli là dove sono nati. Perché il processo di dismissione e semplificazione urbano-sociale ormai interessa anche le ex aree di decentramento produttivo, per analoghi motivi economici e tecnici oggi soggette a dismissione, magari lontano dai riflettori. All’ombra di quei capannoni precompressi, spesso assai più brutti ingombranti e impattanti di quelli storici urbani, si sviluppa la nuova conflittualità operaia per la conservazione del posto di lavoro, e che potrebbe essere letta in forma progressista e in una prospettiva di sinistra. Le produzioni oggi anche lì hanno raggiunto la fase matura, e soprattutto l’urbanizzazione, a maggior ragione l’urbanizzazione di tipo dispero suburbana cresciuta attorno agli impianti, fa gola agli speculatori di bassissimo profilo. Partono così, con coperture mediatiche prevedibili, processi di delocalizzazione, crisi pilotate, confronti assai addomesticati tra presente «grigio e industriale» e rosei futuri immersi nel verde. Ce n’è tutto questo bisogno, di altre lottizzazioni di villette e palazzine? Lasciando per strada famiglie di lavoratori?

Lavoratori che difendendo il proprio posto si fanno a ben vedere soggetti potenzialmente promotori di urbanistica d’avanguardia. Solo potenzialmente, ma è già un passo avanti. Resta da fare tutto il resto, ovvero tradurre in spazi e organizzazione concreta davvero post-industriale classica questo spunto. Realizzando nella pratica, una «pratica di sinistra» concretamente tale perché solidale e non piattamente sviluppista, una città complessa, interpretazione adeguata del cosiddetto suburban retrofitting. Contesto dove si abita, si lavora, si studia e si passa il tempo libero in spazi di alta qualità e massima accessibilità, senza per questo essere costretti a usare l’auto privata. Oggi, anche grazie alle lotte dei lavoratori, ci sono occasioni così, basta saperle cogliere. Una cosa di sinistra? A me pare proprio di si. E a voi?

Riferimenti:
Alessandro Braga, Km 158 

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