Quando i treni arrivavano in orario

fbcq_080«Mussolini ha fatto le bonifiche». Così suona la sparata casuale e strumentale dell’ex leghista aspirante fascio-localista-federale Salvini, magari un po’ influenzata dalla recente visita in Sardegna, l’isola di Carbonia, o di Fertilia (il piccolo misconosciuto borgo che dà il nome all’aeroporto di Alghero e che meriterebbe una visita), ovvero di due delle realizzazioni più vistose di una certa idea di territorio e società abbastanza caratteristiche del periodo tra le due guerre mondiali. E poco importa se in un caso si tratta di un distretto minerario e di una cittadina di una certa consistenza, e nell’altro di un minuscolo grumo di abitazioni sul mare, al centro di un appoderamento rurale e sistemi di canalizzazione: ci sono simboli tangibili di qualcosa, fatti anche e soprattutto per essere tali. Val la pena qui di tornare alla frase iniziale di Salvini, che equivale ovviamente all’altro classico della retorica qualunquista, «a quei tempi i treni arrivavano in orario», per proporre un dilemma che ovviamente non è tale: cosa ci sia oppure no, di marcatamente fascista, precisamente e politicamente orientato, a piacere condivisibile, ripugnante, indifferente, nella bonifica, nei treni che arrivano in orario, o nelle varie cose che si usano spesso e volentieri per ripescare quel periodo della nostra storia nazionale. Anzi per pescare nel torbido, visto che di torbido ce n’è parecchio, e artatamente mantenuto tale da vari fattori.

Restando coi piedi molto per terra, anzi per dirla in gergo «sul territorio», vorrei proporre qui a titolo di caso studio virtuale la lettura comparata di due testi d’epoca che mi è capitato recentemente, e in rapida successione, di riproporre nella sezione Antologia di questo sito. Il primo è un saggio geografico-divulgativo, che la prestigiosa penna di Roberto Almagià dedica alle «Paludi Pontine» dalle pagine della rivista turistica Le Vie d’Italia, nel primo semestre 1922, ovvero quando il movimento fascista si è da poco trasformato in partito, e tutta la fase della presa del potere e della trasformazione in regime è di là da venire. Il secondo testo, già dal titolo perentorio e vagamente ridicolo «Contro la Città» un po’ denuncia la propria natura schiettamente ideologica, ulteriormente confermata dal fatto di comparire su Critica Fascista, rivista animata dall’intellettuale di fronda Giuseppe Bottai, quando il regime è già entrato di fatto nel vicolo cieco dell’alleanza bellica con la Germania e della guerra, qualche mese dopo la dichiarazione ufficiale del 1940.

La cosa curiosa assai a ben vedere, di questi due testi della mia vecchia collezione di ciancicate fotocopie (realizzate quando non ci si era ancora accordati sul formato unico A4, per inciso), è che raccontano esattamente le stesse «bonifiche di Mussolini» strapazzate dal segretario leghista, osservate inconsapevolmente da due angolazioni del tutto diverse, e non solo dal punto di vista diciamo così tecnico. All’inizio c’è l’agro pontino, leggendario cuore di tenebra alle porte di Roma, di cui però il sapiente geografo prima ci rivela angoli poco noti e assai meno tenebrosi, e poi ci racconta nel suo divenire storico antico e recente, di quella che già si intuisce come bonifica integrale, ovvero appoderamenti, grandi opere di canalizzazione, realizzazione di insediamenti stabili e miglioramento delle prospettive socioeconomiche. Alla fine della parabola logica, mentre l’Italia si sta avviando alla disfatta della guerra, ci sono le bonifiche tecnicamente iniziate, i borghi e le cittadine in crescita, i campi che si popolano di attività, ma la «teoria» che ne cava l’ideologizzato osservatore appare un inestricabile minestrone, per molti versi del tutto indistinguibile nella forma e nella sostanza da tante altre descrizioni coeve, vuoi del movimento per le città giardino, vuoi della nascente pianificazione territoriale italiana, vuoi ancora del riformismo New Deal d’oltreoceano. Solo le conclusioni suonano praticamente identiche a quel «Mussolini ha fatto le bonifiche» sventolato oggi dal politicante con la felpa che cerca alleanze tra i nostalgici residuali di massa.

Il che ci riporta al VIA, ovvero alla domanda iniziale: cosa c’è di fascista in un aspetto piuttosto che in un altro di un processo di trasformazione, sociale, territoriale, economico? Nulla, salvo la prospettiva di osservazione, che fa appunto assimilare a sé anche cose lontanissime e apparentemente inassimilabili. E poi, il cappellino, finale, che dopo aver rivoltato la storia antica e recente a proprio vantaggio, acquisendone il meglio e scartando il resto, usa questa base per delineare futuri radiosi: «Quando l’attuale conflitto sarà terminato ed il nuovo ordine europeo, secondo la politica dell’Asse Roma-Berlino sarà un frutto compiuto, anche questa riforma porterà il suo contributo fattivo alla conservazione spirituale e materiale della razza». E poi dicono che la storia non serve a niente, che non dà da mangiare: provate a illuminare di questa sinistra luce le sparate di Salvini, al netto di tutto quel che prende inopinatamente in prestito per pasticciarci pro domo sua.

Riferimenti:
– Roberto Almagià, «Paludi pontine», Le Vie d’Italia, marzo 1922
– Carlo Manetti, «Contro la città», Critica Fascista, 15 novembre 1940

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