Galateo urbano è non averne affatto (2007)

C’è una nuova iniziativa molto visibile, che si chiama «Ask A New Yorker» e che propone gli abitanti della città non solo come svelti, eleganti, decisi, ma anche gentili, premurosi, addirittura generosi. E anche se c’è una certa quantità di vero, quella campagna mi fa tornare in mente un’esperienza del tutto diversa, di quando mi rivolgevo agli abitanti di New York appena arrivato in città, oltre vent’anni fa.
Chiedere cose a degli estranei allora mi ha insegnato qualcosa a proposito dei comportamenti in un contesto affollato, talvolta pericoloso. Non era uguale a dove abitavo prima, e forse non era lo stesso di oggi qui in città.

Ero studente alla Columbia University, esploratore entusiasta e con gli occhi sgranati della mia nuova amata patria. Camminavo per le strade, e spesso mi avvicinavo a estranei a chiedere indicazioni, magari qualche volta l’ora, o qualche altra informazione.
Da buon ragazzo del Sud, invariabilmente iniziavo le frasi al minimo con un «mi scusi», spesso qualcosa di più. E immediatamente dopo che quelle parole mi erano uscite di bocca, spesso vedevo il mio interlocutore irrigidirsi, un’ombra di timore attraversargli il volto, mentre si chiedeva «cosa vuole questo tipo grosso?» «Devo stare in guardia?» «É qualche tipo di fregatura» e vari altri pensieri, o così mi pareva.

Vedendo la cosa ripetersi continuamente, decisi che in una grande città dovevo essere ancora più educato, e allora iniziavo da un preambolo ancora più lungo. Avvicinandomi a qualcuno sulle pensiline della metropolitana, cominciavo con «mi spiace disturbarla, ma mi stavo chiedendo se potesse …». Con mia sorpresa, le cose così andavano anche peggio. Si irrigidivano ancor di più. Qualche volta mi giravano le spalle, e si allontanavano ignorandomi del tutto.
Restavo sempre esterrefatto, per essere classificato nel ruolo di predatore urbano o truffatore. Essendo alto quasi due metri, ero ben consapevole di essere una presenza imponente. Cosa potevo fare per farla apparire più innocua?
Dopo un po’ ci arrivai. Essere meno educato. L’avevo capito sperimentando: se chiedevo in modo molto diretto, la gente non aveva il tempo di aver paura di me. Mia madre non avrebbe approvato, ma a New York funzionava.

Da allora, ho cominciato ad avvicinarmi alle persone abbaiando le domande in modo non sorridente, neutro, a imitare un’immagine stereotipata che avevo in mente, dell’abitante di New York. «Che ore sono?» «Dov’è la metropolitana?» «Da che parte si va in centro?» chiedevo, incrociando lo sguardo delle persone, con un tono di voce vagamente perentorio.
Ha funzionato. Arrivare direttamente al punto scavalca le barriere difensive dell’interlocutore. Non ha il tempo per farsi delle idee su di me. Al contrario, la domanda gli entra immediatamente nel cervello, dove può essere rapidamente valutata come innocua, e provocare la risposta desiderata: «sono le tre e un quarto», o «al prossimo isolato», o «di là». Gli abitanti di New York tendono ad essere collaborativi, ho scoperto, una volta coinvolti. Semplicemente, non hanno voglia di perdere tempo, o di essere derubati.

Funziona ancora bene questa mancanza di buone maniere, a New York? Aiuta ancora spogliare il linguaggio, parlato, del corpo, del viso, da qualunque ornamento? Sospetto di no, non così tanto. La città si è fatta più ricca e sicura, e l’abbellimento è tornato nei comportamenti, così come si aggiungono riccioli di stucco alle nude pareti di un edificio. Sorridiamo di più, adesso, sui marciapiedi e nelle piazze, diciamo mi scusi e grazie tanto, concediamo qualche chiacchiera di maniera agli estranei sulla metropolitana. É una buona cosa.
Ma nonostante tutti questi cambiamenti, io continuo a chiedere le cose in modo piuttosto diretto, per strada. A quanto pare funziona.

da: Spotlight on the Region, settembre 2007 – Titolo originale: Sometimes Good Manners Consist In Not Having Them – Traduzione di Fabrizio Bottini

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