Giardini di pietra ideologica

letchworth

Foto N. Bassani

Alzi la mano e si faccia avanti, chiunque non ha mai sentito un amministratore locale sostenere orgoglioso, e magari pure in buona fede, di aver «creato del verde». Mentre invece, cosa ovvia che di norma lasciamo scorrere via come acqua fresca da quanto è banale, non ha creato proprio un accidente, anzi di verde ne ha distrutto tantissimo. Il meccanismo, a quanto pare mentalmente accettato da quasi tutti, funziona più o meno così: si prende una superficie verde che però non è chiamata tale, e le si cambia di nome, un pezzo diventa parco, un altro costruzioni. Detto in altre parole, c’era una zona fatta di erba, alberi, cespugli, che il piano urbanistico destinava a nuovo quartiere poniamo residenziale, e quando quel quartiere residenziale prende forma concreta, per legge, o per accordi vari, una porzione della superficie è destinata a verde, magari con le panchine, i sentieri, le aiuole. Era verde anche prima, anzi di verde ce n’era molto di più senza le costruzioni, ma il nostro amministratore non molla. Lui ha «creato il verde», e riesce anche a convincerci che è proprio così. In fondo si tratta dell’ennesima variante sul tema delle parole rigirate come frittate a piacere delle parti interessate, ed è interessante esaminare qui l’aspetto chiave specifico della questione. Perché il nostro amministratore qualcosa ha fatto, in fondo, e se non è creare il verde, è almeno creare il «giardino», o perlomeno la parola, esattamente come accade da un secolo circa.

In principio era lo slogan pubblicitario

Riassunto di antiche puntate: esiste, da tradizione probabilmente biblica, l’ossimoro della città giardino; a metà ‘800 più o meno, il municipio di Chicago adotta quella definizione inserendo nel proprio stemma il motto latino Urbs in Horto; negli anni ’70 dello stesso secolo il milionario newyorchese Alexander Stewart replica lo slogan pubblicitario Garden City battezzando così la lottizzazione speculativa per ricchi a Long Island, pensata per aumentare il valore dei terreni dove passa la sua ferrovia. A cavallo del secolo successivo, il riformista britannico Ebenezer Howard, che ha abitato a Chicago e probabilmente conosce anche il progetto di Stewart a New York, ripesca la vendibile definizione di Città Giardino per verniciare di popolarità il più rigido termine Town-Country che compare nello schema delle Tre Calamite, a fare da sintesi nella contrapposizione dialettica fra le qualità e i difetti della metropoli e del mondo rurale. È subito un successone di pubblico e di critica, tutti sembrano entusiasti della sua idea di riforma sociale, moderatamente egualitaria, ma esattamente come aveva fatto lui, e gli altri prima di lui, ciascuno vuole rivoltare la frittata del senso a proprio vantaggio. Nella Garden City di Howard ci si va a costruire una nuova società, il contenitore serve a quello, e per quello e solo quello è concepito, mentre gli altri, quasi tutti gli altri, nelle parole ci vedono roba molto simile al «verde creato dal nulla» del nostro amministratore: fai una città, ci metti lì un giardino, e la rivendi come città giardino, non stiamo a baloccarci con queste perdite di tempo della riforma, suvvia!

Il suburbio merce di scambio

Immediatamente svuotato dai suoi finti fans per nulla riformisti del valore sociale, il temine città giardino si avvia lentamente ma inesorabilmente anche a perdere l’originario valore ambientale, scambiando i simboli di equilibrio (il parco urbano come spazio pubblico, la greenbelt come polmone e dispensa) con addendi del valore immobiliare. Fino a ridurli a poco o niente, se è vero che la maggior parte degli «esperti», interrogati a proposito, vi risponderanno che quel genere di quartieri si riconoscono dalla forma dei villini, che altro? Il salto dall’idea di equilibrio con la natura e di eguaglianza sociale, a quella di privilegio per stare «immersi nel verde» (di solito nascosti dietro la propria siepe), è abbastanza breve, e così nasce la micidiale confusione del sobborgo giardino novecentesco, in cui si mescola di tutto in un minestrone indigeribile. E arriviamo all’altro ieri, quando tra le tante altre cose il Cancelliere dello Scacchiere britannico annuncia nel suo discorso di bilancio il sostegno alla creazione di tanti nuovi Garden Suburbs per «risolvere il problema della casa». Case in proprietà, realizzate e vendute in una logica di libero mercato anche se con sussidi pubblici, ignorando anni e anni di richieste del mondo culturale e degli operatori sociali, per un rilancio dei quartieri urbani, per un ripensamento delle politiche abitative. E magari aggirando il vincolo della greenbelt agricola, quando dovesse mettersi di mezzo: tanto facciamo dei giardini, no? Ecco recuperato il vecchio trucco: le parole sono importanti, e scavarci dietro e di fianco è indispensabile per capire.

Riferimenti:
Tim Sculthorpe, George Osborne plans for thousands of new homes in ‘garden suburbs’ in Budget moves to tackle the housing crisis, Daily Mail, 14 marzo 2016

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