Gli ambientalisti simbolici del libero scambio

Foto J.B. Gatherer

A volte osservare attentamente l’equilibrio tra induzione e deduzione può andare molto oltre la pura speculazione teorica, e arrivare a costruire un’idea del mondo assai pratica e immediatamente operativa. Nel caso della cosiddetta sensibilità ambientale abbiamo giusto davanti agli occhi straordinari esempi di incredibile strabismo, a ben vedere, che dovrebbero farci suonare forte forte dei campanelli di allarme. Perché senza dubbio esistono aspetti e caratteri della produzione e consumo di energia, delle trasformazioni edilizie e urbane, dei comportamenti quotidiani «amici dell’ambiente», ma è altrettanto indubbio che in una miriade di casi (in realtà nella maggioranza, dei casi) si tratta solo di simboli, o di sintomi, a rappresentare quasi l’esatto contrario, ovvero scelte che sull’ambiente hanno impatti più gravi. Il caso macroscopico naturalmente sono acquisti e consumi dove il simbolo ambientalista sta solo nella comunicazione pubblicitaria e non certo nella realtà, e di cui sono emblema un intere generazioni di automobili spacciate come «ecologiche», mentre invece come si scoprirà puntualmente si tratta quantomeno di una forzatura, se non di una vera e propria truffa come ben inquadrato dalle recenti polemiche sulle emissioni truccate. Ma non scherzano affatto, anzi forse sono addirittura peggio in prospettiva, tutte quelle soluzioni abitative «sostenibili» su pieghevoli pubblicitari e redazionali sospetti su riviste patinate.

Immersi nel verde si soffoca il verde

La soluzione abitativa cosiddetta sostenibile è forse peggio del singolo prodotto, perché in realtà poi finisce per trascinarseli appresso tutti, a comporre sé stessa o a farne indispensabile complemento. E pensare che già il primo dato informativo su questo miracolo di ecologia dovrebbe far suonare un campanellino d’allarme: il nome del complesso che ci viene presentato in pompa magna. Dove con pochissime eccezioni riecheggiano nomi di piante d’alto fusto, intere foreste, grandi tenute nobiliari di caccia e simili. Tutte cose che, al massimo e se proprio era andato tutto bene, sono sopravvissute fino a un attimo prima che le ruspe iniziassero a farne piazza pulita, per piazzare la nostra potenziale casa sostenibile esattamente là sopra, il Pendio dei Frassini, la Fattoria Santa Vittoria eccetera, lasciandone al massimo un simbolico brandello a far da sfondo a qualche veduta panoramica da relax serale in veranda, appena dietro il prato artificiale che copre la schiera dei box auto sotterranei. Ed è naturalmente solo l’inizio, perché i declivi boscosi e le tenute agricole erano sopravvissuti all’arrivo della nostra casa giusto perché si trovavano a una notevole distanza da casa altrui, dove le medesime trasformazioni erano avvenute qualche generazione prima, magari con meno brutalità, velocità, monofunzionalità, e dove ancora adesso posiamo andare a lavorare, a scuola, a fruire di servizi. E andarci naturalmente in auto, lungo strade realizzate o allargate ad hoc, consumando tanta benzina che notoriamente è la cosa meno sostenibile del mondo, e poi portandoci a casa corpose scorte alimentari dato che di negozi lungo i pendii di frassini mica ce n’è tanti, e stivandole dentro grossi frigoriferi, che energia ne consumano certo un po’ di più di quelli piccoli. Ma è ancora nulla rispetto a quella consumata da riscaldamento, condizionatori, macchine varie per le piccole manutenzioni che non sono poi tanto piccole, anche contando che l’organizzazione domestica non gode delle normali sinergie dell’abitare urbano condiviso.

Compatibilizzazione, monetizzazione

È davanti a questa abbastanza ovvia constatazione, che entra in campo la pura ideologia, fortemente sostenuta da una gran voglia di credere a qualunque balla ben raccontata. L’ideologia della sostenibilità simbolica separa, esclude, focalizza, come qualunque abile narrazione atta a nascondere e svelare insieme. La casa è per propria natura il contenitore del futuro, e quindi va declinata al futuro, dunque non importa quella faccenda dell’andare e venire in auto per decine di migliaia di chilometri alla volta (e per turnover frenetico di veicoli consumati alla volta), a patto di scegliersi un modello sempre più «ecologico». Non importano neppure gli altri consumi energetici domestici, perché in un modo o nell’altro il mercato, magari direttamente il costruttore o l’impiantista, ci presentano tra un frullare di cifre e comparazioni pannelli, ventole, tubi, condotti, tutto naturalmente che evoca natura incontaminata, cerbiatti sulle etichette, bambini sereni perché sotto la tutela dell’energia verde. Se poi siamo davvero scafati, informati, veri studiosi del settore o quasi, e non ce la raccontano proprio giusta nemmeno con tutte queste patacche per l’ecologia superficiale da gonzi creduloni, ecco arrivare le compatibilizzazioni finanziarie sotto forma di carbon credits o altre modalità di scambio. Qualcosa che assomiglia molto da vicino a certi standard urbani in tanti casi ridotti a pure quantità e superfici, senza pensare al ruolo che dovrebbero effettivamente svolgere, ma che in aggiunta in questi nuovi modelli abitativi ha la presunta monetizzazione della natura. Come dire: ammetto, si, nonostante tutto sono stato cattivo, ho fatto un danno, ma comprerò un bel regalo di Natale ai poveri! Una volta si diceva grandi peccatori grandi cattedrali, oggi è ancora da vedere se quei calcoli finanziari, di monetizzazione delle risorse naturali, abbiano senso. Ma intanto andiamo ad abitare nel suburbio «ecologico», ce l’ha promesso sul sito con quei bei montaggi il Paradiso dei Salici Piangenti.

Riferimenti:
Joshua Emerson Smith, Will carbon credits pave the way for new suburban sprawl in San Diego and beyond? San Diego Union Tribune, 23 ottobre 2017

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