Il bio d’élite non fa massa critica urbana

Quando ci si attacca troppo a qualche scenario ideale, senza considerare a sufficienza la realtà che ci strattona di continuo, si possono avere due motivazioni: la prima perfettamente legittima e coerente, la seconda dettata da pura ottusità. Si può ignorare il contesto, o almeno tenerlo fuori dal proprio campo di riflessione e azione, a titolo di «laboratorio scientifico», perché ci interessa sviluppare solo una parte della faccenda a scopi di approfondimento, per ricavarne considerazioni generali, da confrontare poi, quelle, con la realtà nel suo insieme. La reazione ottusa, che pare non tenere affatto conto dei riscontri reali, aggrappata come una cozza al suo scenario ideale a cui guarda con sterminata fiducia, finisce per produrre solo guai, ed è questo spesso il caso con certe pensate amiche dell’ambiente, della società, della città e dell’umanità tutta. Uno dei casi più classici di questo tipo, è la diffusioni di prodotti, servizi, stili di vita, tra una fascia sociale privilegiata, a fungere da vero e proprio status symbol, suscitando invidia tra chi non se li può permettere. Come accaduto per esempio con la «carrozza senza cavalli» in principio, un giocattolo per ricchi avventurosi e un po’ eccentrici. Ma che poi, grazie a investimenti e innovazioni, ha radicalmente cambiato (con quali esiti non è qui il caso di approfondire) le nostre città, le nostre abitudini collettive, e soprattutto si è fatta pervasiva, ubiqua, caratterizzante e sistemica.

Cibo, cibi, filiere

Qualcosa del genere si auspica da diversi anni per l’alimentazione post industriale, vuoi nel segno di nuove forme produttive, vuoi in quello di una maggiore sostenibilità e risparmio di risorse, vuoi nella loro integrazione sul territorio urbano dove via via vanno a risiedere la maggior parte dei consumatori e in futuro presumibilmente anche operatori. L’innovazione diciamo così «da laboratorio» si articola qui secondo varie direttrici, la più vistosa delle quali (come si è visto ad esempio con l’Expo dedicata al cibo) è quella di mercato, ovvero che solletica le voglie di investire con l’idea di trarci vantaggi economici di qualche genere. In tanti modi, di cui val la pena ricordare per esempio quella agricoltura metropolitana e chilometro zero assai particolare se non fosse quella più frequente, ovvero le colture di erbe aromatiche da rivendere a caro prezzo ai ristoranti, e comunque tutti quei tetti, capannoni, cantine e quant’altro dove spuntano a volte copiosi, a volte un po’ meno, vegetali dal valore nutritivo prevalentemente simbolico. O le vertical farm, soprattutto disegnate e pubblicate dagli studi di architettura, dove tra torri vertiginose e strutture high tech varie, si perde completamente il senso di che possa mai significare in termini alimentari, distributivi, di trasformazione, quell’enorme trabiccolo. Al punto che in un recente articolo ci si chiede: se il mondo si nutre di proteine animali, che vuol dire escluderle così da praticamente tutti i progetti «avveniristici» di agricoltura urbana?

Distribuzione e stili di vita

Buona ultima, ma non certo in ordine di importanza, la rete distributiva, che al di là dell’enfasi pubblicitaria appioppata alle nuove terminologie del biologico, del sano e sostenibile, del chilometro zero e/o dell’equo solidale, pare svolazzare parecchio per conto proprio, anziché cercare serie integrazioni col resto. E basta, per tornare agli esempi citati sopra, ricordare quanto poco si parli, in termini relativi, della virtuosa filiera dentro cui dovrebbero introdursi le scelte produttive, di trasformazione e distribuzione dei prodotti alimentari, perché anche a fronte di una efficientissima vertical farm che sforna radicchi e legumi, o di un sociale orto di quartiere dove crescono tonnellate di pomodori e piselli, prima di poterli ragionevolmente gustare a pranzo di passaggi ce ne sono parecchi, e difficili da gestire in modo improvvisato. Triste, infine che quel comparto di mercato più attento a enfatizzare gli aspetti della sostenibilità e dell’integrazione, almeno nelle etichette, nella pubblicità, nelle roboanti dichiarazioni, finisca per restare dentro la «laboratorio delle élites» senza tracimare mai davvero sia nei consumi di massa, sia nel determinare virtuosamente forme urbane e reti di relazioni stabili. I negozi di fascia superiore, gli angoli dei supermercati dedicati a questo tipo di prodotti, i rapporti (peraltro poco noti e sfruttati, forse inesistenti) con le produzioni locali o sostenibili, restano al momento una piccolissima enclave di lusso, magari assediata dentro a quartieri gentrificati, un fenomeno modaiolo insomma, pronto a tramontare appena gira il vento.

Riferimenti:
Craig Giammona, Whole Foods to Shrink Store Count for First Time Since 2008, Bloomberg, 8 febbraio 2017

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