Il cervello risciacquato dalla mobilità automobilistica

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Foto M. B. Style

Le innovazioni scompigliano la vita, e ci sono parecchi modi di reagire a questo scompiglio. C’è chi si adatta e chi ignora il cambiamento, chiudendosi in un proprio bozzolo di indifferenza o sdegno, salvo poi magari subirlo obliquamente, o a sua volta trovare modi di adattamento personalizzati. Alla città moderna, ai suoi ritmi meccanici e alle nuove gerarchie di tempo e spazio indotte dall’industrializzazione, si adattavano per esempio con slancio le avanguardie artistiche, sognando una vera e propria transustanziazione umana consapevole e attiva, ma si adattavano a modo loro anche quelle masse amorfe così ben raffigurate (più o meno nel medesimo periodo in cui imperversavano gli avanguardisti) da Fritz Lang nel suo Metropolis. Mentre, piuttosto assurdamente, erano proprio i principali decisori del cambiamento, i capitalisti e i quadri superiori, a recitare la parte degli imbozzolati indifferenti a e loro modo sdegnati: invece di starci dentro, alla città moderna creata dalle loro strategie, scappavano lontano nell’arcadia artificiosa del suburbio, discendente moderno delle ville di campagna nobiliari dell’antichità. Sono le avanguardie artistiche le prime a adottare il mito della velocità, sia sui veicoli a motore che nei processi anche percettivi (si pensi ad esempio agli esperimenti della cosiddetta fotodinamica). E qui, da vere avanguardie in senso filologico, si limitano ad anticipare ciò che abbastanza presto coinvolgerà tutti.

Consapevolezza e riflessi condizionati

Abbastanza paradossale, ma non troppo, il fatto che molto presto i veri territori di caccia del nuovo impulso alla velocità, o perlomeno alla meccanizzazione dell’esistenza, diventeranno esattamente quei suburbi in cui si erano originariamente rifugiati quelli che la rifuggivano. E per un motivo che avrebbero dovuto ampiamente prevedere: non si dà suburbio senza innovazioni, perlomeno non nel senso moderno di appendice residenziale della città, che ne mette in discussione solo alcuni a ben vedere marginali aspetti, accogliendo tutto il resto salvo spalmarlo su un proprio spazio-tempo. Lo spazio si dilata, e il tempo aumenta di ritmo pendolare, da qui a lì sempre più spesso e sempre più in là, a rispondere a bisogni che il consumismo (la nuova frontiera commerciale del costituzionale diritto alla felicità) dilata all’infinito. Se il futurista però la sua esperienza traumatica di velocità accelerata la viveva in modo consapevole, l’abitante urbano-suburbano del ‘900 la subisce quasi totalmente a propria insaputa: cerca la pace, ma trova continui ostacoli nell’arraffare gli strumenti per costruirsela, non capendo che li trasforma in ostacoli. Questo atteggiamento piuttosto passivo di bisogni imposti e accettati senza alcuna forma di riflessione, è per esempio quello che ci fa individuare (molto più spesso di quanto non ci capiti di avvertire) il «traffico» come problema, generato vuoi dal destino cinico e baro, vuoi comunque dagli «altri».

Secondo i propri bisogni

Stiamo classicamente intrappolati nell’ingorgo, i tempi del nostro appuntamento si fanno sempre più stretti, scatta un po’ di ansia, e si maledice tutta quella massa di lamiere ammucchiate per strada che incede a singhiozzo, scordandosi che la causa dell’obbrobrio potremmo scrutarla anche in qualche dettaglio, semplicemente specchiandoci nel retrovisore. E scrutando quella faccia sciagurata, esercitarci (tanto non abbiamo di meglio da fare: è un’occasione) nell’anamnesi su cosa diavolo ci ha portato fin lì, in stile regia cinematografica. Potremmo scoprirne davvero di interessanti, a partire dal fatto che avevamo fissato quell’appuntamento con la pretesa di fare troppe cose prima, e quindi di muoverci in quella direzione troppo tardi: qui abbiamo fatto inconsapevolmente una accelerazione dei ritmi alla futurista novecentesco, non alla ricerca del brivido della velocità ma da scemi. A sua volta quella accelerazione dei ritmi è una sopravvalutazione della nostra capacità di schizzare fulminei da qui a là, basata sulla disponibilità di auto, parcheggi a profusione, strade sgombre manco fosse la notte di Natale, e non un martedì mattina. Quando tutti gli scemi come noialtri, che hanno investito in massa i risparmi di una vita per comprarsi il sogno immerso nel verde a due ore di auto da qualsiasi cosa diversa dallo stupido gatto dei vicini, si muovono come madrepore di una crosta mastodontica, nella medesima direzione. A che bisogno stavamo rispondendo, facendo tutta questa serie di cretinate in sinergia? Ecco, chiederselo con un briciolo di senso critico, magari ci porterebbe da qualche parte, invece che dentro quell’ingorgo nuovo che già si profila cento metri più avanti.

Riferimenti:
Claudia Dreifus, Edward Humes on How Transportation Overkill Is Killing Us, The New York Times, 12 settembre 2016

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