Il laboratorio dell’iperspazio pubblico

Foto J. B. Hunter

Cos’è una città? Domanda che pare certamente lecita, ma altrettanto certamente un po’ cretina, posta così, data la miriade di risposte possibili, tanti quanti sono i punti di vista, le prospettive di osservazione più o meno sistematiche, l’orientamento soggettivo e contestuale di chi risponde. Ci si potrebbe aggiungere, per soprannumero, che legittima «città» non deve neppure essere qualcosa di necessariamente materiale, anche se appoggiata in un modo o nell’altro a uno spazio che materiale lo è, e che definisce i suoi caratteri di gioia, dolore, danza, musica o chissà che altro. In epoche di «non luoghi» alla Marc Augé è anche spuntato quel concetto un po’ da architetti della cosiddetta città temporanea, pure perfettamente legittima pur se della città le mancherebbe quel pezzo fondamentale che sono gli abitanti, a meno naturalmente di considerare tali quelli che temporaneamente ci passano attraverso, come l’acqua in un condotto o i veicoli in una galleria. Qui però lo spazio è assai concreto e definito, non a caso si diceva che il concetto è cosa da architetti, che quei luoghi o non luoghi che siano li progettano per renderli in qualche modo comodi, belli, abitabili, addirittura «identitari» se è vero che, a giudizio del medesimo Augé, via via gli utenti hanno finito per accettarne la natura transeunte come un po’ analoga alla propria, di società liquida, come diceva Zygmunt Bauman.

Solidificazione part time

La domanda che ci si può porre però, se tante sono le definizioni e articolazioni della «città», è se siano altrettante, e più o meno corrispondenti, anche le prospettive di osservazione, concezione, governo: perché una città a differenza di un cucchiaio è complessa e fatta di regole. Non necessariamente autoritarie, prescrittive, meccaniche, ovvero nulla a che vedere con utopie più o meno fosche di vario genere, solo regole condivise, che consentono l’esistenza e il prosperare di quella città. Anche quando si tratta di una vita effimera, o come accade in certi casi di una vita che si accende, si spegne, si riaccende eccetera. Del resto la città temporanea del transito è tale quando il transito esiste, ovvero quando il management decide di farcelo passare aprendo i cancelli, e lo stesso vale per lo shopping mall introverso, simulacro di città solo quando le serrande si alzano, e altrimenti scatolone-hangar spettrale, buono per farci quelle scene di per sé surreali di certi film. Lo stesso vale per i campeggi, perfette imitazioni di un quartiere suburbano classico salvo nei materiali delle abitazioni smontabili, che finita la stagione si svuota lasciando solo lo scheletro delle infrastrutture tecniche minime, ad aspettare che di nuovo le condizioni atmosferiche e i cicli sociali di lavoro-riposo mettano le premesse per un programmato ripopolamento. Ma anche per i concerti, che vedono tabule rase popolarsi improvvisamente, se pur molto liberamente e con poche strutture fisse, di una fitta e molto identitaria popolazione, con gli sguardi e il cuore inchiodati all’evento, in genere su un altare-palco centrale, non dissimile dalla arcaica piramide dei sacrifici dell’antichità.

Burning Man: città e relativi problemi-processi?

Il festival annuale del Burning Man rappresenta un particolare caso di campeggio-evento-concerto assai più esplicitamente urbano rispetto alla media di queste città temporanee-immateriali. Lo è al punto che già nel sottotitolo del sito tematico si afferma chiaramente: «in realtà non siamo affatto un festival, ma una vera e propria città dove tutto quanto accade avviene per decisione dei suoi cittadini, che partecipano all’esperienza». E anche oltre la comprensibile retorica autopromozionale, ci sono anni di articoli e studi, teorici come sul campo, a confermare questa natura di vera e propria entità urbana per il Festival dell’Uomo che Brucia. Quindi qui forse più che mai si pone con una certa urgenza da laboratorio (perché il metodo si potrebbe poi estendere, come si fa dai topolini ai pazienti umani nella ricerca medica) la questione: possiamo provare ad applicare a una città anomala alcuni criteri di osservazione, progetto, gestione, critica, nati dentro il metabolismo della metropoli più tradizionale? Facendolo, appunto, nella speranza che verificando qui in forma estremamente accelerata lo svolgersi delle azioni e reazioni, si traggano spunti preziosi da trasferire poi anche altrove? L’ultimo processo rilevato al festival del deserto urbanizzato, è quello che è stato definito di gentrification, ovvero sostituzione sociale dai fricchettoni nazionalpopolari tradizionali, ai fighettoni pieni di soldi che arrivano qui hungry and foolish dalla Silicon Valley, apparentemente a stravolgere il senso dell’evento, diventato una specie di club di milionari chiuso ed esclusivo. La questione di base suona allora: il fatto che cambi la clientela di un apparentemente privatissimo festival annuale, che però è una riconosciuta esperienza urbana, lo possiamo davvero definire patologica gentrification? E con quali varianti rispetto ai vari ma assai tradizionalmente cittadini modelli «fissi»? Infine, esistono «politiche urbane» in grado di invertire il corso, e vale la pena di metterle in atto? Paiono domande tutte interessanti, su cui riflettere.

Riferimenti:
– Keith A. Spencer, The data behind the gentrification of Burning Man, Salon, 2 settembre 2017
– Il sito
Burning Man

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