Il paesaggio è della gente

Foto F. Bottini

Come sanno praticamente da secoli più o meno tutti, il vero legittimo percorso e successo dell’opera d’arte è quello sociale, ovvero non i massimi o minimi della fortuna critica dell’oggetto in sé, ma l’insieme dell’interazione con varie fasce di utenza diretta e indiretta. Tenendo bene in mente questa prospettiva di osservazione, a cui senza dubbio contribuisce anche se a volte non in modo determinante l’altra, quella della critica distillata più appariscente e mediaticamente «vocal», forse è di qualche utilità provare a comparare due recentissime, diverse ma analoghe installazioni, che proprio di questo genere di interazione hanno fatto la loro ragion d’essere. Mi riferisco in particolare ai «Moli fluttuanti» realizzati a metà giugno 2016 da Christo attraverso il sistema insulare del Lago d’Iseo nelle Prealpi bresciane, e al «Campo di grano» piantato da Agnes Dénes all’interno del complesso detto Porta Nuova, nel nucleo denso centrale di Milano, circa un anno prima, e culminato con la «mietitura» quasi negli stessi giorni. Moltissime le differenze, moltissime anche le analogie, dal punto di vista del possibile metodo di osservazione.

Forse val la pena iniziare da alcune analogie, pur nella differenza oggettiva delle proposte. La principale sta forse nella sostanziale inconsistenza della installazione in sé, separata dal contesto. Proprio focalizzandosi su questo aspetto si inizia probabilmente a cogliere il senso dell’accostamento-contrapposizione. In entrambi i casi si tratta in sostanza di una riproposizione di progetto «chiavi in mano» collocato in una situazione differente ma giudicata valida, ma se Wheatfield di Dénes fa il suo viaggio di consegna nel tempo e nello spazio (dalla New York cupa dei primi ’80 alla Milano globalizzata del terzo millennio di Expo), i Floating Piers di Christo sbarcano sulle sponde del lago prealpino solo da un tavolo di progettazione e concertazione, ovvero prima esistevano esclusivamente come concept. Il campo di grano, piantato sulle sponde dell’Hudson mentre ancora la metropoli stava sprofondata nella crisi fiscale, razziale, sociale, immobiliare del secondo ‘900, indicava la via di una possibile uscita sostenibile e partecipata, per quanto forse solo in termini simbolici. Dove prima c’erano macerie adesso crescevano spighe, e il raccolto partecipato dai cittadini si distribuiva in sacchetti anche alle altre città vittima di analoghi dinamiche di degrado. La medesima installazione, fotocopiata identica con piglio da stilisti estetizzanti, trentacinque anni dopo e fra le pareti a specchio lievemente pacchiane di proprietà del Qatar, difficilmente poteva indicare qualche prospettiva, salvo quella di finire sulle pagine patinate di una rivista di moda, come di fatto avvenuto con la «mietitura» fatta da modelli in costume, in uno senario praticamente deserto e tra le erbacce cresciute nell’indifferenza sostanziale della città.

Tutto diverso il discorso dei moli fluttuanti, dove già il «contenitore» non è l’opera in sé, ma la sua interazione col paesaggio, pronta a sua volta a interagire con l’utente-contenuto. Chi anche preventivamente (è il caso ad esempio del critico Philippe Daverio) ha stroncato l’iniziativa in quanto opera d’arte ripetitiva e dozzinale, sagra paesana che non valeva la pena giudicare, probabilmente non ha colto proprio la sua natura aperta ad accogliere altro senso. L’invito esplicito a «entrare nel paesaggio modificato modificandolo ulteriormente» non a caso è stato accolto intuitivamente dal pubblico, e comunicato col passaparola, tra parentesi mettendo in crisi un già carente e improvvisato sistema logistico e moltiplicando critiche improprie. Perché non si tratta esattamente di installazione-opera, come poteva apparire in un primo tempo specie leggendo certe raccomandazioni a fruirla in tutto il suo splendore contemplandola dall’alto, ma di puro espediente tecnico per produrre un evento sociale, esattamente come avviene per le migliori piazze monumentali simboliche luogo di ritrovo pubblico.

E anche con qualcosa in più e inedito: la dimensione fisica, la composizione mista, le sensazioni coinvolte. Un ambiente enorme, spropositato anche rispetto a quello delle piazze pubbliche di ritrovo di massa, ma che replica di fatto il medesimo meccanismo di trasfigurazione, unendo probabilmente per la prima volta su dimensioni del genere cose disparate che vanno dalla fila per la mostra o il museo, la giornata in spiaggia, la passeggiata in montagna, il godimento tutto soggettivo di un particolare o un paesaggio, ivi compresa la sensazione tattile della superficie increspata. Il comporsi del fattore spaziale, sociale, dei flussi (in questo senso anche i percorsi di avvicinamento, poi collassati per via della pessima gestione, fanno parte dell’installazione), dell’immaginario, delle relazioni interne che si sperimentano tra i fruitori-protagonisti. Tutto, e basta parlare con chiunque ci sia stato a confermarlo, molto molto oltre la comune dinamica della fruizione del bene culturale, per quanto massificata, e anche molto oltre (questo è certo) le ragionevoli aspettative dell’artista e dei critici. Che infatti al momento paiono sinistramente silenziosi, salvo qualche legittima collaterale stroncatura di aspetti parziali, che però nulla toglie al bilancio infinitamente positivo dell’evento, che potrebbe già da oggi tranquillamente trasformarsi in un concept replicabile, in uno standard di riproposta del paesaggio. Per chi non ha preconcetti ideologici, naturalmente.

(questo articolo è stato scritto come Opinione per Eddyburg nel 2016)

Commenti

commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.