In quanto urbanista, io cosa diavolo sarei?

A. Gallion, «The Urban Pattern», 1950

Certo semplicionismo da social network dei nostri giorni, anche qui avrebbe pochi dubbi, anzi nessuno: la città la fanno gli architetti, magari sulla base di una piattaforma tecnologica costruita da ingegneri e simili, e poi certo con l’aggiunta di elementi importanti che richiedono le competenze delle scienze naturali, o delle discipline dell’organizzazione, o magari quelle sanitarie e sociali … Come spesso succede, basta giusto seguire anche un filo di ragionamento minimale del genere per scoprire che il semplicionismo al solito si è mangiato da solo, perché a furia di inseguire controcorrente infiniti rivoli ci siamo perduti la questione di partenza, che poteva anche suonare «ma chi diavolo è questo urbanista?». Magari possiamo anche incrociare uno di quelli che la sanno lunga, anzi che hanno qualche cuggino addentro al problema che ne sa una più del diavolo, e ci spiega, col tono usato in genere per i durissimi di comprendonio: mio cuggino fa l’urbanista in Comune, e lui lo sa cosa vuol dire, si calcolano gli indici di fabbricabilità come dice l’assessore, e poi magari si correggono per votare la delibera. Però anche qui il nostro arguto interlocutore e il suo cuggino addentro ai segreti tecnici della materia, in realtà non ci rispondono, perché l’idea di città ovvero l’urbanistica, come ci raccontano pure loro, richiede il fondamentale intervento dell’assessore, e poi di chi redige la delibera e di quelli che la votano, e di quelli che votano quelli che votano … E il calcolatore di indici di fabbricabilità, se non ci fossero ostacoli burocratici e sindacali, magari già lo potrebbe sostituire una bella app sullo smartphone dell’assessore, scaricabile gratuitamente. Un bel ginepraio, questo qui dell’identità dell’urbanista, che storicamente in tanti provano con vario successo a districare.

In principio era la visione intuitiva

Con la città tradizionale e il modo tradizionale di gestire i poteri, il problema dell’urbanistica in fondo non si pone affatto, salvo come equilibrio più o meno spontaneo tra forze naturali e volontà umana. Ma nella fase matura dell’evoluzione in senso industriale di quella manifestazione della volontà umana detta città moderna, con l’energia più o meno imbrigliata che sprizza da tutti i buchi, il problema si pone davvero in primo piano, e qui arriva l’intuizione geniale degli architetti, di farsi contenitori-coordinatori dell’insieme di spinte che chiamiamo qui «urbanistica», fornendogli la necessaria capacità di esprimere chiaramente «visione». La cosa parrebbe abbastanza definita già in quel nodo primordiale di cervelli e interessi che è la Planning Conference convocata a Londra nel 1910 dal Royal Institute of British Architects, su cui convergono da tutto il mondo. Ma non si era fatto il dovuto calcolo dell’egocentrica energia sviluppata dal medesimo approccio artistico intuitivo che in fondo stava alla base di tutto, già pronto ad avocare a sé, esattamente come avevano fatto sino ad allora tutti i possibili e immaginabili despoti – tecnici o economici o politici – il monopolio della visione. Che quindi finisce rapidamente per confondersi in un approccio settoriale (quello del progetto edilizio, per quanto articolato e inclusivo) tale da porre apparentemente in secondo piano tutti gli altri, che naturalmente cercano altri sbocchi. Accade che si sovrappongano nell’immaginario collettivo l’urbanista e l’architetto, ma solo se consideriamo urbanistica quel che l’architetto fa, controlla, decide, capisce, magari delegando se ci riesce. Insomma all’intuizione e alla visione non segue una strategia davvero comprensiva, a dirla tutta.

Liberi battitori o veri protagonisti?

Al punto che il termine accettato in tutto il mondo, di planner, per tutto il ‘900 si applica con una certa fatica e salti mortali logici a protagonisti assoluti e di primo piano del planning stesso, dell’idea di città, i quali però nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro, pur a volte usando i medesimi linguaggi, frequentando gli stessi luoghi e concetti. Il contenitore concettuale accomuna artisti praticamente puri alla le Corbusier, a politici di sottogoverno d’alto bordo come Robert Moses (indimenticabile la foto in cui i due compari si guardano sogghignando l’uno con l’altro, incrociandosi nella vicenda della sede ONU di New York), a studiosi sistematici e genialmente trasversali loro malgrado, come il sociologo Clarence Perry quando incrocia la sensibilità spaziale delle famiglie urbane desiderose di relazioni esterne, o più tardi l’impertinente Jane Jacobs quando scopre che la promessa razionalista della Frankfurt Küche si è trasformata da occasione in trappola, chiudendo in una prigione mentale anche i suoi progettisti. In mezzo, la figura classica e media dell’urbanista dal vestito grigio dipendente o consulente dell’amministrazione municipale, che si fa carico di trasformare (o distorcere, a seconda dei casi) quelle variegate idee di città coi suoi strumenti tecnici sbilanciati ed esclusivi, anziché capaci di accogliere e sintetizzare. E vediamo così nascere le azioni parallele di altri approcci che si credevano assimilati e metabolizzati, da quello ambientalista, ai trasporti, ai servizi, via via espulsi dall’arroganza professionale degli studi di architettura, o avocati a sé da qualche nuovo potere e trasformati nel «piano alternativo» da usare discrezionalmente. Fino a oggi, quando giustamente e sempre più spesso qualcuno si chiede che ci sta a fare, scrivendo la parola urbanistica anche solo nel tag di un articolo online, figuriamoci su qualche targa o lapide marmorea celebrativa.

Riferimenti:
Marlon Williams, As Urban Planners, We Must Ask: Who Are We? The Next City, 28 giugno 2017

 

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