Il buio oltre la siepe della densificazione suburbana

Foto J. B. Gatherer

C’è un’idea di libertà piuttosto schematica e apparentemente indiscutibile, che si riassume con: sono libero, salvo riconoscere che la cosa si ferma davanti alla libertà altrui. In termini curiosamente immobiliari, il medesimo concetto viene riassunto nell’adagio popolare «Good fences make good neighbors», che pur riferendosi a un’idea più ampia usa proprio quella metafora fisica del classicissimo steccato a separare due giardini confinanti. Il che in fondo altro non fa se non rafforzare un altro detto forse meno nazionalpopolare dell’altro, ma altrettanto consolidato, e che suona: l’urbanistica è politica, ovvero idea generale del mondo, della società, delle relazioni, pur espressa nella forma ristretta del suo supporto spaziale, ma senza affatto prescindere dal resto. Meglio ancora, funziona questa corrispondenza concettuale, se consideriamo la cattiva urbanistica in quanto espressione perfetta della cattiva politica, quando né l’una né l’altra sembrano fare il proprio mestiere, in omaggio a quella che possiamo definire una versione caricaturale e patetica del proverbio sui recinti. Perché non è affatto vero che quell’idea di libertà funzioni proprio così, a monadi segregate, ci sono invece parecchi stadi intermedi e camere di compensazione, e semplificare troppo aiuta soltanto a confondere le idee.

Il suburbio è antiurbano e antiurbanistico

Non è certamente un caso, che la villettopoli regno dell’idea di Buio oltre la siepe (altra famosa metafora della famiglia dei recinti) sia esattamente e al tempo stesso il luogo dell’antipolitica, e della deregolamentazione effettiva dei modi di convivenza, cancellando sia le camere di decompressione dello spazio pubblico urbano classico, sia quelle virtuali che lo sottendono. Solo e unico «piano urbanistico» legittimo di questa specie di fasullo tempio della privacy e della famiglia, sono le norme di azzonamento e la rete tecnica della griglia stradale che separa i gruppi di proprietà nel cul de sac classico. Le quali, apparentemente simili a un comune, per quanto più complesso, piano urbanistico, ne escludono proprio l’idea di città che dovrebbe rappresentarne la base, lasciando solo indicazioni tecniche tali da definire altezze, arretramenti, tipologie di massima, densità, e naturalmente insieme alla funzione e localizzazione relativa, la destinazione funzionale-sociale. Ed ecco sformata la griglia delle monadi incomunicanti, di fatto identiche, soggettivamente diversissime, ciascuna che vive il medesimo universo più o meno ritmata dai medesimi modi, ma considerandosene l’unico legittimo abitante. Questo in sostanza produce l’appiattirsi dell’urbanistica sui recinti dei confini di proprietà, oltre i quali c’è davvero il buio, il nulla, per definizione.

La densificazione antiumana

Ed è questo eternarsi di idea antiurbanistica del piano e della parte di non-città, ad aver prodotto la cultura (usiamo questo termine per carità di patria) della cosiddetta densificazione suburbana, a sua volta versione da geometra ottuso del già abbastanza discutibile suburban retrofitting inventato tempo fa per sommare a tavolino da un lato la critica organica al modello di crescita detto sprawl, ma dall’altro senza perdere di vista gli elementi più ideologici e antiurbani che si ritengono fondativi del cosiddetto American Dream, ridotto all’osso della nazione di proprietari di casa con giardino e auto privata. Cosa dice, in sostanza, questa incultura di piano della densificazione? Che in modo piuttosto manualistico, per arginare lo sprawl e il consumo esagerato di territorio per funzioni urbane a bassissima densità, sia possibile agire intervenendo sulle singole proprietà, vuoi «rilottizzandole» per suddivisione, vuoi semplicemente consentendo meno arretramenti, maggiori altezze. Si realizza città, in questo modo? Assolutamente no: il prodotto che ne esce, sia nella fase di transizione verificabile che prevedibilmente nell’assetto definitivo di questa fase di densificazione, lascia intatta la natura suburbana delle monadi incomunicanti, del «Good fences make good neighbors». D’altro canto però si annulla proprio quella artificiosa idea di privacy assoluta e isolamento familiare da capanna di tronchi del pioniere, che sta alla base di questo modo di abitare. Risultato, chiunque subisca questo vero e proprio assalto dal buio oltre la siepe, si trasforma in un ferocissimo nimby, nemico di ogni trasformazione. È contrario all’urbanistica? Niente affatto: è contrario all’antiurbanesimo totale che si manifesta in quelle goffe forme tecniche, gestite nel vuoto politico da analfabeti. Con buona pace degli equilibri dialettici del suburban retrofitting.

Riferimenti:
Tim Querengesser, In Edmonton’s ‘first’ suburbs, a battle to restrict lot splitting, The Globe and Mail, 30 giugno 2017

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