Inquinamento atmosferico urbano: che fare?

smoke

Foto M. B. Style

Nel suo La situazione della classe operaia in Inghilterra, Friedrich Engels ricorda per testimonianza diretta come i giovani operai della sua tessitura di Manchester si vantassero con le ragazze per la capacità di sopportare fumi ed esalazioni senza cadere storditi. Cosa che da un certo punto di vista in una prospettiva storica è anche comprensibile: dimostrare resistenza all’inquinamento, in quell’epoca significava probabilmente anche dimostrarsi ben adattati all’ambiente assai ostile di lavoro, e quindi ottimi potenziali compagni ed eventuali padri di bambini. Come ben noto però a quell’atteggiamento iniziò presto a subentrare la richiesta di migliori condizioni sanitarie, dentro e fuori la fabbrica, e soprattutto di abbattimento della micidiale miscela di fumi e umidità atmosferica, che un articolo di giornale verso la fine del XIX secolo soprannominava col nomignolo poi usato anche dalla scienza: smog. Ma nonostante rivendicazioni, leggi, innovazioni tecnologiche e organizzative varie, il problema della nocività dell’atmosfera urbana attraversa tutto il secolo successivo, con quella nota punta drammatica del cosiddetto Big Smoke a Londra nel 1952, le decine di morti e la metropoli al collasso, fino ai nostri giorni di emergenze, blocchi del traffico, nuove normative, e altre crisi.

Fatta la legge trovato l’inganno

La cosa del tutto normale, e per certi versi anche comprensibile e prevedibile, è che insieme all’innovazione tecnica crescessero anche le conoscenze scientifiche sanitarie e lo stesso concetto di benessere e salute. Per cui anche condizioni di vita e lavoro magari considerate quasi impossibili e paradisiache dagli operai di Engels via via diventavano normali, discutibili, migliorabili, e a loro volta insostenibili. Anche perché al concetto di smog si legano via via cose diverse, diverse concentrazioni e composizioni, oltre che forme diverse di inquinamento, primo fra tutti il passaggio dalla combustione industriale e domestica a quella per la mobilità. Raccontavano entusiasti alcuni urbanisti alla primissima Town Planning Conference di Londra, nel 1910, come l’auto a motore significasse uno stratosferico balzo in avanti per la salute delle città: con la scomparsa tendenziale della trazione animale nel trasporto di persone e merci, si eliminava tutta la malsana filiera delle stalle urbane, dei parassiti, delle centinaia di tonnellate di letame da raccogliere per le strade, quella medesima porcheria che aveva ispirato a Leonardo la sua città su due livelli (quello superiore destinato alle schizzinose damigelle di corte). Non sapevano, gli entusiasti architetti e ingegneri, che il trabiccolo così sponsorizzato da Mr. Henry Ford & Soci avrebbe presto presentato un proprio particolare conto, in termini di inquinanti, prima arricchendo il brodo primordiale dello smog da carbone, e in seguito distinguendosi per altre specificità, dal piombo alle attuali famigerate micropolveri. Ma se cambia il contesto, forse non dovrebbe cambiare il metodo, seguendo diciamo così l’approccio «rivoluzionario» in fondo suggerito da Engels.

Il paradigma resta identico, per una volta

Niente paura: nessuno qui vuole suggerire improbabili lotte impiegatizie per la proprietà dei mezzi di riproduzione, e neppure assalti armati ai vari Ministeri dei Trasporti o della Salute. L’approccio radicale sta nel capire il metodo in cui sinora si sono evolute le cose, ed evitare di ripercorrere gli eterni errori di strategie segmentate, e mirate appunto via via alla tutela della salute pubblica, o alla promozione delle innovazioni tecnologiche e alla loro commercializzazione, o all’adeguamento degli stili di vita e delle infrastrutture al mutamento indotto, man mano se ne manifestano le modalità. Per fare un solo esempio di strategie che non sono davvero tali, almeno per affrontare in maniera sistemica la questione, partiamo più o meno dall’epoca di Engels, in cui iniziano due processi innovativi, uno tecnologico e uno di organizzazione spaziale. Il primo è una maggiore efficienza nelle combustioni e relativa minore produzione di veleni da far respirare ai poveracci che stanno attorno, migliorando gli impianti, allungando verso l’alto le ciminiere dove c’è più vento, e usando tipi diversi di combustibili. Il secondo, più interessante, è il massiccio decentramento degli stabilimenti industriali verso le campagne, che seguendo criteri di mercato innesca forse più problemi di quanti non ne risolva allontanando dalle concentrazioni urbane le fonti inquinanti. Ovvero, se porto via lo stabilimento, inizierò per prima cosa a speculare sull’area, magari con un bel processo di gentrification come lo chiamiamo oggi (all’epoca magari si sarebbe detto sventramento), e rallenterò di parecchio sia l’innovazione tecnologica pulita possibile, sia quella sociale perché nelle aree rurali mi ritrovo manodopera per nulla sindacalizzata e consapevole dei diritti. E poi c’è la nuova emissione inquinante dei trasporti, perché decentrare, disperdersi, vuol dire aumentare mobilità varie di persone e di merci, quindi da un lato riduco l’inquinamento mio diretto, dall’altro ne produco di nuovo per i trasporti, esattamente il problema che abbiamo oggi, visto che l’evoluzione del settore è andata come sappiamo. Di conseguenza, un «piano» per la riduzione degli inquinamenti e degli impatti deve essere davvero tale: comprendere organizzazione territoriale, pensare trasversalmente ai vari settori, concepire i trasporti come sistema integrato ed evitare tanto per intenderci quelle cose meccaniche tipo «passare dalla mobilità individuale a quella collettiva» e simili. E certo sentire che molti continuano a pensare per progetti compartimentalizzati non aiuta a ben sperare: basta col diesel, ma no, facendo così si uccide un mercato, andiamo tutti in bicicletta eccetera, sono i medesimi errori di metodo che si sono fatti per un secolo e mezzo, lasciandoci ancora in balia dell’inquinamento atmosferico. Che non è un destino ineluttabile.

Riferimenti:

Damian Carrington, The truth about London’s air pollution, The Guardian, 5 febbraio 2016

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