La nuova frontiera di capannonia

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Foto J. B. Hunter

Sarà capitato credo a molti, se non a tutti, di ascoltare in un dibattito «aperto» sul riuso di un contenitore o superficie dismessa, un abitante del quartiere o comune cittadino uscirsene col classico: ma perché non ci facciamo un parco? E suscitare in genere anche qualche entusiasta applauso. Difficile, in quei casi, esporre con la dovuta serenità e chiarezza la motivazione essenziale del perché no. La quale motivazione essenziale suonerebbe in sintesi estrema: perché se dovessimo scegliere la collocazione in assoluto peggiore del mondo per un parco in zona, coinciderebbe quasi perfettamente coi confini di quell’area. Costosissima da bonificare, priva di terreno che dovrebbe essere portato costosissimamente sul posto, e di norma (salvo eccezioni che confermano la regola) anche mal collocata per una funzione come quella del verde pubblico. Questo non significa però negare agli innervositi cittadini il loro agognato parco, che si potrà realizzare altrove, magari lì accanto in un’area più adatta, e proprio grazie ai profitti di un riuso adeguato e coerente del contenitore o delle superfici dismesse. Vale anche la pena specificare che i pochi rari casi in cui si verifica l’eccezione, ovvero assume davvero qualche senso pensare di realizzare dei parchi in quelle situazioni, è quando la dismissione interessa luoghi molto densi e centrali. Oggi però la vera frontiera della dismissione, il problema nuovo ed emergente, riguarda tutt’altro contesto, ovvero quello suburbano, per sua natura e tradizione «immerso nel verde» per antonomasia.

Il pendolo dell’immaginario

Lo sappiamo in fondo tutti, cosa vuol dire quel concetto di «immerso nel verde», no? Nessuno si sognerebbe mai di definire un complesso agricolo immerso nel verde, proprio perché di quel verde fa parte integrante, è a modo suo una componente che interagisce col resto. Mentre il suburbio fuori dall’ideologia del cosiddetto ritorno alla campagna nasce esattamente come città alternativa a organizzazione automobilistica, città che dilata le distanze lasciando quei simbolici respingenti delle fasce più o meno ampie di interposizione, ma che dell’insediamento urbano tradizionale conserva tutti i peggiori vizi, primo fra tutti quello dell’artificializzazione, alla faccia di certi sentierini serpeggianti che scimmiottano forme naturali rigorosamente asfaltate e con cordoli in pietra o cemento. Insomma, detto in sintesi estrema, anche se apparentemente in una logica diversa, la crisi funzionale delle infrastrutture urbane detta dismissione, nel suburbio avviene con presupposti analoghi a quelli nel nucleo centrale, e coi medesimi criteri va trattata: il guaio della cancellazione delle superfici naturali l’abbiamo già fatto, e su scala infinitamente più dilatata dal punto di vista sistemico, al cittadino che pretende «facciamoci un parco» (ovvero ripristiniamo territorio agricolo o analoghi) si può e si deve dare la medesima risposta. Perché oggi, in modo sempre più massiccio, il problema si pone: i centri commerciali, i nuclei produttivi, i parchi per uffici, gli stessi quartieri residenziali segregati a bassa densità, subiscono processi di crisi assai analoga a quella urbanistico-industriale classica. E ciò avviene a seguito di un processo di per sé «virtuoso», che si definisce di riurbanizzazione.

Creative movement?

Accade che quanto appare piuttosto noto secondo la categoria sociologica della creative class, lo sia ovviamente anche sul versante di chi la paga, ovvero delle attività qualificate, delle loro imprese, dei relativi contenitori spaziali in senso lato. Compagnie grandi e medie che spostano massicciamente sedi dai contesti «immersi nel verde» verso la metà del secolo scorso, per ricollocarli dentro grattacieli, cosa che potrebbe apparire per molti versi vintage, se non fosse accompagnata appunto dalle dismissioni, in grado di spargere panico dentro le circoscrizioni amministrative che praticamente esistevano in funzione di quelle entità. Quello che i cittadini perentoriamente richiedenti il loro «parco» al posto dell’office park (o di qualunque altra struttura urbana a bassa densità correlata) non colgono, è anche e soprattutto l’inutilità di qualunque verde per il tempo libero se non c’è nessuno da servire, almeno in prospettiva. E dunque la domanda suona piuttosto che farsene, in senso urbano, di quelle irreversibili trasformazioni, magari pensando in termini meno casuali, meno segregati, più resilienti e complessi. Cioè meno di fuga dalla città, ma di riconoscimento sostanziale di starci dentro, senza troppi misteri da buio oltre la siepe: non c’è nessun buio, se dialoghiamo con quel che ci sta dentro.

Riferimenti:
James W. Hughes, Joseph J. Seneca, Reinventing the New Jersey Economy: New Metropolitan and Regional Employment Dynamics, Rutgers University, 2012

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