La bufala ideologica della «shrinking city»

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Foto J. B. Gatherer

La popolazione mondiale cresce, e contemporaneamente cresce anche (molto più rapidamente) la quota di questa popolazione che risiede nelle città, città sempre più grandi anche se certamente molto diverse dal genere di conurbazioni continue e compatte che gli studiosi temevano nella fase matura dello sviluppo industriale, a cavallo fra XIX e XX secolo. Nonostante il fatto che, in molti contesti nazionali e regionali, le modalità di sviluppo e di insediamento spesso ricalcano certe tappe dell’evoluzione di città industriali del mondo occidentale (le stesse tendenze che avevano allarmato la scienza all’epoca di Patrick Geddes), vuoi per una maggiore attenzione a certe patologie, vuoi per pura disponibilità di conoscenze tecnologiche e organizzative, la crescita isotropa della temuta mammoth city o paranoica megalopoli alla Oswald Spengler non si è verificata. Le cifre e le tendenze però parlano molto chiaro: non solo il futuro dell’umanità è urbano, ma mediamente si tratterà di una vita urbana in luoghi più grandi e densi di quanto accaduto finora. L’altra cosa certa, è anche che non esiste un modello unico di ambiente urbano e vita urbana, molto dipende da fattori storici, geografici, sociali, politici, ambientali, economici. In questo contesto, nasce l’idea della città che si restringe: perché no, pensano alcuni, sta succedendo e potrebbe succedere molto di più, una riduzione «organica» delle dimensioni urbane.

L’eccezione serve a confermare la regola, che altro?

Le crisi urbane sono cosa del tutto normale da quando esiste la città. È storicamente e scientificamente dimostrato che esistono interi sistemi urbani regionali, ovvero non semplici nuclei, come quello della Valle dell’Indo di Mohenjo-daro, cresciuti fino a un massimo di splendore e ricchezza, e poi entrati in una spirale discendente anche brusca, si ritiene di solito per un insieme di cause con al centro il degrado ambientale, spinto anche dalle attività umane. In generale, come del resto abbastanza ovvio, la crisi urbana sopravviene quando uno o più fattori determinanti del successo di quell’insediamento vengono meno, e le conoscenze o condizioni impediscono il subentrare di altri fattori alternativi. I casi storici di veri e propri crolli di città/civiltà corrispondono in genere a crisi agricole e ambientali, esaurimento di fertilità, delle risorse idriche, o mutamenti climatici che determinano insuperabili squilibri. Ma ci sono casi meno radicali in cui il fattore traumatico è sociale, sanitario (le epidemie), politico-militare, e la crisi urbana al massimo si risolve in uno stop alla crescita, o in una perdita di primato, ad esempio quando l’affermarsi di nuove tecnologie diminuisce il valore della localizzazione, o della vicinanza di certe risorse. Il caso più recente della cosiddetta città che si restringe, la «shrinking city», certo rientra in queste tipologie generali, ma è molto, molto particolare.

Nessun modello: solo uno slogan di successo

Tra le crisi urbane minori, quelle che al massimo arrestano o rallentano la crescita, oppure tolgono un primato alla città che le subisce, abbiamo citato quella tecnologico-organizzativa: cambia la stazza delle navi, e un porto che non può accogliere i nuovi vascelli diventa meno importante; si inventa una nuova efficientissima fonte di energia, ed ecco che tutte le città che basavano la propria potenza sulla disponibilità delle vecchie energie perdono il primato, e devono mettersi in fila, e via di questo passo. Di solito, a crisi del genere si reagisce differenziando, cambiando equilibri, cosa che riesce molto bene a città con una lunga storia, una forte complessità, una grande articolazione, ad esempio le capitali politiche che possono sempre approfittare del loro «settore trainante» pubblico, del fatto di essere sede del potere decisionale che poi influenza tutto il resto. Le città industriali nate e cresciute praticamente dal nulla, con un «motore» semplicissimo costituito da poche fabbriche assai specializzate, attorno alle quali ruotava tutto il resto, non hanno nessun fattore di complessità e resilienza a proteggerle anche da queste crisi per così dire minori. È il caso emblematico della motor-town Detroit che dopo una tumultuosa crescita nel segno esclusivo dell’automobile ha cominciato su tutto l’arco del secondo ‘900 e fino ai nostri giorni, una spirale discendente economica, demografica, di ruolo e di immagine. Non è l’unica ad aver subito questo destino, di «shrinking city», ma le sue cugine sono molto, molto poche.

Una questione sociale, ambientale, e di progetto, non una questione urbana

Accade, in estrema sintesi, che quartieri e/o interi settori urbani nati e cresciuti nella monocoltura della fabbrica automobilistica, abbiano visto prosciugarsi la propria ragion d’essere prima con lo sprawl e la cosiddetta fuga dei bianchi, poi con la delocalizzazione globale vera e propria. Siamo comunque a una crisi urbana minore, e localizzatissima, una grande dismissione e particolarissimo «riuso», che consiste nella demolizione, bonifica, e passaggio da funzioni produttive meccaniche a verde per scopi alimentari e sociali. Se di modello si tratta, è certamente un modello di riuso, non di città, qualcosa che sta a cavallo tra le discipline ambientali, l’architettura, la sociologia. Piccoli o medi tasselli che vanno a sostituirne altri nel mosaico pressoché identico della città moderna, volontari o cooperative invece di operai e manager, quintali o tonnellate di verdura anziché lamiere e motori, sostenibilità locale invece di crescita quantitativa e finanziaria. Se di nuovo paradigma si tratta, certamente siamo ad alcuni anni luce da quello storico dell’equilibrio città/campagna, a meno di voler trasformare in teorie e logie le vaghe impressioni di qualche fantasioso rendering. Non a caso la discussione infuria soprattutto fra architetti e mondo del volontariato: la cosa già da sole dovrebbe essere un sintomo chiaro: cerchiamo anche noi di fare «shrinking perspective», capiremo meglio il contesto, e anche i suoi indubbi straordinari spunti positivi, basta non confondersi.

Riferimenti:
American Society of Landscape Architects, Sustainable Landscapes: Lafayette Greens, Detroit (ci sono anche altre decine di casi pressoché identici, girellando per le varie aree del paese, per nulla interessate da processi analoghi di dismissione)

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