La città è igiene, in ogni senso

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Foto F. Bottini

Tempo fa, ha imperversato su parecchi siti blog e aggregatori americani, di vario orientamento disciplinare e fasce di lettori, il tema del gabinetto pubblico. Forse sollecitati dalla lodevole iniziativa della Fondazione Bill & Melinda Gates di un aggeggio economico ma sano ed efficace per i paesi in via di sviluppo, parecchi commentatori si sono soffermati sull’argomento affrontandolo soprattutto sul versante tecnologico. Del resto l’iniziativa filantropica globale per reinventare questo essenziale servizio e infrastruttura urbana mirava proprio a individuare una chiave tecnico-organizzativa adeguata per il rilancio di un tema essenziale come la prevenzione, che nel caso specifico unisce sia i comportamenti virtuosi che un adeguato contesto perché questi comportamenti possano svilupparsi sino a diventare la norma. Ma il trasferimento dal contesto del global slum a quello della ricca città occidentale ha avuto se non altro qualche effetto socialmente e culturalmente positivo. A partire dall’allargamento del tema, cosa di cui in effetti non si discuteva da molto.

Pochi si ricordano infatti, purtroppo, sino a che punto l’idea di città moderna nel suo insieme dipenda proprio dall’incrocio fra l’aspetto sanitario e gli altri. Non solo per le lontane e seminali ricerche dell’ormai abbastanza famoso dottor Snow nella Londra paleoindustriale martoriata dal colera, ma anche e soprattutto per ciò che avverrà dopo. C’è addirittura una bellissima e significativa immagine che riassume al meglio questo rapporto stretto e fondamentale, ed è quella stampata in migliaia, probabilmente milioni di esemplari, sulla carta che confeziona le saponette della Lever. Si vede, su quell’etichetta di solito rapidamente accartocciata nella spazzatura, un classico marchio industriale otto-novecentesco, ovvero la veduta a volo d’uccello delle fabbriche che producono quella roba, a garantire qualità. Ma nel caso specifico, prima di tutto si tratta di un sapone, simbolo e sostanza di pulizia, igiene, benessere, buoni rapporti sociali, immagine personale vincente e sexy. E poi, c’è il nome del prodotto, che è lo stesso di quel posto che si vede disegnato nella veduta: Port Sunlight Soap.

Ovvero non solo la fabbrica, ma la città ideale del produttore di sapone, coi quartieri di ordinati villini, l’acqua corrente, i lavatoi, gli spazi pubblici, le scuole. Si tratta di uno degli insediamenti del cosiddetto paternalismo industriale, o company town, e però anche di uno dei modelli architettonico-urbanistici ufficiali della città giardino, che di suo ci aggiungerà soprattutto i contenuti (poi abilmente fatti evaporare dai finti esegeti) di tipo sociale e politico. Ma a ben vedere qualche contenuto sociale progressista già esiste nel solo fatto di una città che garantisce efficienza nell’erogazione di servizi sanitari quali sono i lavatoi, l’acqua corrente pulita, i gabinetti, e che col tipo di organizzazione tecnico-spaziale dell’epoca si legano soprattutto a una rete urbana collettiva e pubblica.

Aspetti ancora vivi oggi, vuoi nei ricordi personali vuoi in alcune realtà come quelle dei bagni pubblici, luogo di pulizia ma anche di relazione, discendente diretto delle terme o delle saune. Forse non è un caso se il luogo in cui più si è parlato di nuovi gabinetti tecnologici è Portland, Oregon, città simbolo di ogni innovazione urbanistica negli Usa, dai piani per contenere il consumo metropolitano di suolo agricolo, alle reti di mobilità dolce, alle case economiche, ai programmi integrati per il chilometro zero e un’alimentazione sana legata al territorio. The Portland Loo, letteralmente il cesso di Portland, è soprattutto un oggetto di design, ma diventa quasi immediatamente un’idea di spazio pubblico (che compare in primo piano anche nel marchio ufficiale municipale) perché recupera l’antica valenza di questa rete, troppo sbrigativamente delegata alle private abitazioni o ad altri ambiti comunque sottratti alla fruizione libera e collettiva. Ripensare la città oggi, esattamente come avviene ad esempio con i contesti sinora terra di nessuno di superstrade e parcheggi, vuol dire anche recuperare il ruolo di cose come il gabinetto, a ricordarci che conviviamo con milioni di nostri simili, e lo facciamo in un contesto di risorse limitate.

Si colloca in questo contesto anche una linea di pensiero apparentemente del tutto autonoma, in particolare quella estetizzante delle città europee e del loro spesso scomparso, comunque dismesso e dimenticato, sistema un tempo assai in auge degli alberghi diurni, dei lavatoi docce e dormitori pubblici, delle strutture per il mercato, e appunto dei gabinetti. Cose di cui ci si ricorda giusto solo quando in un luogo estraneo ci troviamo con l’emergenza, e il fastidio relativo di dover elemosinare da un barista quanto invece sarebbe tanto sensato poter avere liberamente a disposizione altrove, magari come contributo a qualificare vie e piazze. Deve essere un confuso sentimento del genere ad aver ispirato a Milano, in tempi abbastanza recenti quanto, almeno tre casi: la visita collettiva gestita dai FAI con grande successo all’ex Albergo Diurno sotterraneo a Porta Venezia; il rilancio con dedica a Enzo Jannacci del vecchio dormitorio pubblico di Viale Ortles; e dulcis in fundo l’inopinata scoperta (manco si trattasse di reperti imperiali romani) sotto una grata a Porta Ticinese durante i lavoro per Expo, di un vero autentico gabinetto pubblico. Ciumbia! (traduzione per i non locali e/o non comprendenti: perdincibacco!). Comprensibile e lodevole che direttamente dal Comune sia nata l’iniziativa di iniziare a mappare la potenziale rete di strutture del genere, che potrebbe diventare un complemento indispensabile a ricostruire un’idea di città pubblica non episodica. In epoca di smaterializzazione, collegamenti senza fili e app a far di tutto, salta sempre più all’occhio il ruolo essenziale di cose invece molto tangibili come la bicicletta, le panchine, e appunto un luogo per far pipì in pace. Viva la post modernità, se è tanto accogliente e comoda. Per favore dopo l’uso lasciatela in ordine.

Riferimenti:

Il progetto della Fondazione Bill & Melissa Gate per “reinventare il gabinetto”

Un breve estratto dal Corriere della Sera Milano, 25 aprile 2014, p. 5:
“Una città di bagni e docce sotterranei. Il ritrovamento sotto piazza XXIV Maggio di bagni risalenti agli anni Cinquanta ha acceso l’interesse di Palazzo Marino che ha avviato un’indagine per censire e mappare le strutture ipogee di Milano. E da un primo esame si è scoperto che in città ci sono 19 tra bagni pubblici, docce e lavatoi, di cui 7 sotterranei e abbandonati. Ci sono quelli di via Palestro che risalgono al 1919, per una superficie di 135 metri quadrati. Nel 2006 era stato elaborato un progetto preliminare di recupero dei bagni interrati che prevedevano interventi come l’impermeabilizzazione della copertura, il risanamento delle murature, il restauro dei servizi igienici, dei serramenti e dei rivestimenti ceramici. Nel progetto era previsto, inoltre, un nuovo impianto elettrico e di ventilazione. Il costo stimato era di 490.000 euro, la durata dei lavori era fissata in 27 mesi. Ma la mancanza di fondi ha bloccato tutto”

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