La Città Ideale della Padania (2000)

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Foto F. Bottini (Carvico, Bg)

L’urbanistica è di destra o di sinistra? Sembra una domanda mal posta, se non decisamente stupida, ma in un modo o nell’altro è stata ed è uno dei punti focali del dibattito sull’idea di città e sull’uso del territorio nel nostro paese. E bene ha fatto un attento osservatore come Edoardo Salzano a mettere in rilievo la grande evidenza che assume l’urbanistica nel programma elettorale della Lega Nord per le prossime amministrative, alla pari con altri più noti «pilastri», quali l’immigrazione e il federalismo. Ma qual’è l’idea di urbanistica, di città, di territorio, che ha in mente la Lega? Una domanda certo difficile, forse anche più di quelle (tuttora aperte) sul recente passato: è mai esistita, ad esempio, una identificabile urbanistica democristiana, o una comunista, socialista, e così via? È però possibile cercare una risposta, sicuramente parziale, alla domanda sull’idea di urbanistica della Lega scorrendo gli articoli sull’argomento pubblicati dal suo organo ufficiale, La Padania, tentando di trarne qualche spunto di riflessione. I potenti mezzi messici a disposizione dalla tecnologia moderna, per una volta si rivelano davvero tali, dato che sul sito on-line del giornale, inserendo la parola chiave «urbanistica», si ottengono centinaia di riferimenti: ricchi, contraddittori, che però è possibile ricondurre ad alcune identificabili «famiglie».

Contro il degrado

Un primo gruppo di articoli, si inserisce nel ricco filone dell’annoso dibattito sullo «sfascio del territorio». Degrado delle città, dei centri storici così come delle periferie, aggrediti da nemici vecchi e nuovi: in prima linea gli immigrati clandestini, con le occupazioni di immobili in disuso, o le richieste per luoghi di culto e socialità come le moschee. Soprattutto in questi ultimi casi, ragioni e strumenti della battaglia leghista sono quasi sempre di tipo urbanistico, come la mancanza di requisiti tecnici (parcheggi, immobili adatti, accessibilità). Di segno meno evidentemente reazionario, le posizioni per esempio sul dissesto idrogeologico, dove non mancano nemmeno espliciti richiami agli errori di una recente modernizzazione e infrastrutturazione forzata e senza regole. La rassegna, da questo punto di vista, può partire da una immagine assolutamente classica dell’immaginario leghista: l’eroico sindaco di una comunità valligiana, che guida la sua amministrazione contro tutti gli ostacoli del centralismo e dell’inefficienza, a rinascere dopo una grave alluvione, nel segno di una politica urbanistica trasparente e attenta agli investimenti prioritari in servizi per il cittadino e l’impresa (14.2.98, p. 6, Samolaco sempre in prima linea).

Non può mancare, come non manca, la sottolineatura delle caratteristiche tragiche assunte dal degrado territoriale, quando questo si manifesta nel già cupo e alieno contesto del Sud, regno del lassismo, dell’abusivismo, della criminalità organizzata e del colpevole laissez-faire del notabilato locale. Luoghi dove basta guardarsi attorno per scoprire «le inconfutabili prove dell’impotenza e dell’inefficienza delle amministrazioni locali, le prove del disprezzo delle leggi urbanistiche, la conferma della continua violazione dei vincoli paesaggistici» (14.4.98, p. 14, Nessuno punisce lo scempio). Conclusione: «Niente male, vero? Verrebbe da essere d’accordo: Forza Vesuvio, cancella tutta ‘sta munnezza!».

Una forza devastatrice a fare pulizia, per esempio, dell’abusivismo edilizio, giustificato per anni da politici di maggioranza e opposizione, inclini a presentarlo come peccato veniale, di «necessità», e non a considerarlo nella giusta luce di arma a doppio taglio per le popolazioni locali: da un lato lasciate apparentemente libere di «arrangiarsi», dall’altro lasciate invece in balia delle mafie edilizie e del dissesto ambientale, con risultati anche fatali come le alluvioni o le frane, che il rispetto delle norme urbanistiche avrebbe invece probabilmente evitato, o comunque contenuto. Insomma, «nelle aree non protette del Mezzogiorno, le costruzioni abusive vengono su come la gramigna e (l’arcinoto caso delle Vele napoletane insegna) come la gramigna, son difficili da far sparire» (15.4.98, p. 7, Parchi e aree protette coperti dal cemento fuorilegge, di Paolo Parenti).

L’abusivismo, il degrado, il pericolo per le comunità e lo sviluppo, non sono comunque monopolio delle regioni meridionali: anche il Nord paga la sua tassa di disastri appena qualche goccia di pioggia in più mette in crisi la rete di infrastrutture vecchie, o mal progettate, o gli insediamenti cresciuti a caso là dove c’erano campagne, colline, alvei di fiumi e torrenti. Stavolta però non si invoca la forza purificatrice del vulcano, ma un più prosaico adeguamento degli strumenti urbanistici, che dovranno comprendere obbligatoriamente uno studio geologico, visto che apparentemente il ligio settentrionale non realizza vere e proprie costruzioni abusive, «ma sicuramente opere ampliate o sovraelevate in modo non del tutto rispondenti alle leggi urbanistiche» (18.11.99, p. 17, Savona, scatta l’allarme, di G.D.).

Si potrebbe continuare a lungo, presentando varie sfumature, posizioni, possibili linee interpretative sul ricco filone del pensiero leghista riguardo al degrado territoriale, ma forse è il caso di concludere riassumendo le posizioni ufficiali del partito così come riferite sul giornale da Davide Boni, Coordinatore della Segreteria Politica federale, e dall’architetto Alessandra Tabacco, responsabile del settore territorio (21.4.2000, p. 22, Abusivismo edilizio: così non va, a cura di Claudio Gobbi). Innanzitutto, l’abusivismo effettivamente nasce da un bisogno reale, indotto dalle profonde trasformazioni sociali più o meno legate ai processi di globalizzazione, deindustrializzazione, riassesto socio-territoriale, a cui i pubblici poteri non hanno saputo dare risposte adeguate, salvo inseguire la «delegittimazione degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica a favore di singoli progetti», e soprattutto tentando con lo strumento del condono un’azione tardiva, inefficace, controproducente.

Il Sud, per le sue particolarità in termini di rapporto fra forme della rappresentanza, ambito della decisione, sviluppo locale, è negativamente all’avanguardia in questo senso. La soluzione può essere trovata in un ripensamento del rapporto fra interesse pubblico e privato, tenendo conto che «lo scopo di un piano o di una legge urbanistica non può basarsi sull’assunto che la pubblica amministrazione debba controllare pedissequamente ogni azione o espressione del privato, ma debba controllare che il «bene pubblico e sociale» della vita collettiva di una città o di un territorio siano garantiti appieno sia nella tutela della forma fisica e dell’ambiente dei luoghi sia nella dotazione di servizi, opere e strutture realmente fruibili da tutti. Di conseguenza il problema dell’abusivismo verrebbe posto nell’ottica che gli è propria: l’eccezione e non la regola».

Un approccio propositivo

Non a caso, si è conclusa la rassegna sul problema del degrado e dell’abusivismo (iniziata con le fosche immagini dei comitati contro le moschee) con una dichiarazione «riformista» e condivisibile. Il fatto è che, come era abbastanza logico aspettarsi, da un lato non è possibile (come già detto nel passato per la DC, il PCI, il PSI ecc.) identificare univocamente una linea politica in materia urbanistica, e soprattutto una rigida coerenza fra indicazioni programmatiche generali e casi locali; d’altra parte, sarebbe sciocco e schematico identificare un’idea urbanistica di destra con la semplice deregulation, o con la realtà tangibile della «villettopoli» con annessi nani da giardino, che forse brulica di elettori della Lega Nord, ma sicuramente non ne esaurisce, oltre la facile caricatura, l’immagine di città ideale. La seconda parte del nostro percorso vuole così snodarsi proprio fra le regole, o la ricerca di regole, per una buona gestione del territorio, così come emergono dalla lettura delle pagine de La Padania, anche oltre il pur positivo ma ovvio ruolo di «alfabetizzazione» di quadri e militanti, che si traduce in un costante flusso informativo sulla giurisprudenza, le esperienze di pianificazione locali, la produzione libraria di settore e i convegni.

Emblematicamente, apriamo questa rassegna con un piccolo episodio locale lombardo, che vede la Lega Nord difendere le regole di una corretta programmazione urbanistica dai tentativi di deroga introdotti dalla Regione, stavolta su un tema in cui la Lega non teme confronti: il rapporto fra territorio, ordine pubblico, sicurezza. L’idea dell’assessore regionale (del Polo, allora non ancora alleato di governo) è di dare ai Comuni la possibilità di introdurre varianti urbanistiche allo scopo di insediare forze di polizia, con il risultato di enfatizzare strumentalmente questioni di sicurezza, al punto che paradossalmente per favorire il «recupero delle aree degradate, ora basterà insediare qualche albanese in un edificio fatiscente per abbatterlo sulla base di una semplice dichiarazione del sindaco e favorire così gli interessi dei gruppi immobiliari, che avranno mano libera sulle aree a dispetto del Piano regolatore» (18.11.99, p. 16, Il Pirellone si fa palazzinaro, di Andrea Accorsi).

Ma, oltre le polemiche puntuali, le nuove regole dell’urbanistica dovranno in linea di massima essere improntate all’esatto opposto di quanto ha prodotto sinora lentezze, totale discrezionalità nelle scelte, approccio cavilloso, scarsa trasparenza. Tra le innovazioni che almeno parzialmente imboccano un percorso in questo senso, si individuano come di particolare rilievo la facilitata partecipazione di cittadini ed enti alla formazione dei piani, un ruolo più elastico ma rafforzato della pianificazione sovracomunale di coordinamento, maggiore snellezza nelle procedure di approvazione. Il tutto a superare un’urbanistica «centralista, che soprattutto nei decenni passati ha determinato una quasi totale compromissione dei nostri luoghi, non solo in aree fortemente urbanizzate ma anche in zone ambientalmente e paesisticamente apprezzabili» (29.3.00, p. 13, Basta con tutti i cavilli che ci legano le mani).

Pianificazione di area vasta, si specifica in altro articolo, non deve essere intesa come progetto puntuale dell’assetto territoriale esteso a vaste zone (un sospetto che aveva letteralmente terrorizzato il pubblico di quadri democristiani ai congressi Istituto Nazionale di Urbanistica negli anni Cinquanta), ma quadro di riferimento all’interno del quale possano trovare la migliore soluzione, questa sì specificata nei dettagli, i problemi dei singoli centri, in particolare di quelli minori i cui nuclei storici e l’ambiente naturale e agricolo sono aggrediti dallo sviluppo delle attività economiche e/o delle infrastrutture. Per dirla con l’estensore dell’articolo la pianificazione di scala comunale e attuativa si applica laddove «emerge la necessità di creare un sistema isolato, di estrapolarlo dalla realtà al fine di creare un modello ideale, e di calarlo poi nella realtà apportandovi le modifiche opportune» (29.3.00, p. 14, Un progetto che accomuni i piccoli paesi).

Ancora si potrebbe continuare a lungo, visto che l’idea di «regole», più o meno esplicita e declinata, permea molti contributi sul tema del territorio. Ma come nel caso precedente dell’approccio negativo al degrado del territorio, è utile concludere con una posizione ufficiale, che qui prende la forma del punto sulle battaglie politiche del partito proprio in materia di urbanistica e piani regolatori (29.3.2000, p. 14, La riforma del piano regolatore). Il deputato Francesco Formenti, ripercorrendo i contributi politici della Lega al dibattito, sintetizza alcuni principi base a suo parere irrinunciabili e consolidati, a partire dalla «area omogenea», i cui confini non sono determinati dal caso, ma dalla possibilità di costruire un piano regolatore razionale. A questo principio (il sogno, irrealizzato e forse irrealizzabile, di qualche generazione di urbanisti europei) se ne affiancano altri, come quello ambientalista secondo cui «il territorio non è un bene inesauribile, e pertanto il suo utilizzo deve basarsi sui principi della massima conservazione delle risorse e di azzeramento degli sprechi», per finire con l’attenzione alle tradizioni locali, nonché alle questioni culturali ed etniche nella delimitazione delle nuove aree amministrative. Il quadro in cui si collocherebbe, questa ambiziosissima riforma è, manco a dirlo, quello della Padania indipendente.

Spazio e identità

Terzo e ultimo punto di vista, per quanto riguarda queste note, è quello forse più significativo, che riguarda il rapporto fra luoghi, comunità, culture, su cui si innesta buona parte della ragion d’essere della Lega Nord. È il tema dello spazio locale, di quanto è soggettivamente e quotidianamente percepibile, di quanto si ritiene a torto o a ragione maggiormente sensibile agli attacchi dall’esterno, che assumono via via il volto dell’immigrato, dei grandi centri commerciali, dell’impresa slegata dagli interessi locali, e infine (ma non certo in ordine di importanza) di una cultura architettonica e urbanistica international style, i cui segni sono con sempre maggiore fastidio percepiti come estranei, dirigisti, comunisteggianti o piattamente stupidi, comunque privi della caratteristica indispensabile del radicamento locale. In questo senso assumono particolare valore le declinazioni locali, per quanto limitate e contraddittorie, delle regole e principi generali che abbiamo ripreso in precedenza: la tutela delle tradizioni e l’incentivo allo sviluppo, la protezione dell’ambiente e quella del portafoglio, trovano in una generale, incredibile affezione agli spazi del centro storico, un particolare punto di equilibrio.

Un buon esempio di questo è la descrizione del programma elettorale della Lega per Monselice, nella bassa padovana, dove fulcro delle proposte è un nuovo piano regolatore che sappia tutelare il nucleo interno tradizionale rilanciandone in primo luogo le attività, a partire da quelle commerciali. Là dove, invece, il centro sinistra avrebbe « imposto un nuovo piano urbanistico che intrappola il centro in un circuito assurdo di sensi unici, senza risolvere il problema ed anzi aggravandolo» (23.5.99, p. 6, La rinascita di Monselice passa per il piano regolatore, di Michela Danieli). Poco importa se, guardando meglio, si riesce a immaginare che in pratica si tratti, più o meno, della solita protesta di bottegai contro le pedonalizzazioni. Qui quello che conta è l’idea di spazio tradizionale come entità «autogestita», funzionalmente, socialmente, e non solo esteticamente alternativa ai centri commerciali plastificati lungo le superstrade.

E non è certo un caso se la responsabile federale territorio e urbanistica, Alessandra Tabacco, si concede a tempo perso alcune digressioni proprio sul tema del rapporto fra giovani, immaginario, spazio reale, tradizionale, artificiale, passeggiando virtualmente «nei ghetti e nei confini territoriali imposti da qualsivoglia autorità autoreferenziale che poco hanno a che fare con il «sentire comune» della gente e dei popoli e con il loro bisogno di autodeterminarsi in spazi, situazioni ed emozioni che riescono a dare sicurezza perché derivano da una «storia locale»» (14.6.00, p. 2, I giovani del 2000 e la città). Sono luoghi concreti o immaginati, popolati da «cubiste» che si muovono in luoghi cui non appartengono, e che abbandonano senza averli né modificati, né resi in qualche modo propri. Il loro sradicamento non è scelta, ma imposizione eterodiretta, assenza di alternative, di spazi così come degli «ideali politici e civili in cui noi Padani crediamo, non solo per trasmetterli a loro volta, ma anche per cambiare ove possibile quelle tracce e quei segni «foresti» dei nostri luoghi e della nostra memoria».

È una conseguenza quasi automatica di queste premesse, l’autentico disgusto per l’intero blocco della cultura architettonica e urbanistica che discende, più o meno direttamente, dal Movimento Moderno, ovvero dal tentativo pur contraddittorio di misurarsi, in un modo o nell’altro, coi temi della macchina, dell’alienazione, dello sradicamento, appunto. Il disprezzo per Le Corbusier, Gropius, e via via tutti i loro esegeti, figli e nipoti che abbiano lascito traccia visibile sul territorio italiano, appare netto, inequivocabile, e soprattutto abbastanza motivato oltre i toni sboccati. L’accusa, per Le Corbusier e per tutto quanto si assimila al suo pensiero, è quella di essersi «accanito contro l’architettura e l’urbanistica tradizionale e popolare con furia calvinista e con un odio che merita l’interesse di psicanalisti e psichiatri» (25.3.01, p. 12, Magia elettrica e tricolore, di Gilberto Oneto).

Tutto questo sforzo distruttore, poi, si sarebbe dispiegato con uno scopo ben meschino, come può verificare qualunque visitatore eventualmente ansioso di respirare l’aria «che si respira in tanti quartieri ispirati a queste cavolate, dal Gratosoglio a Porto Marghera». E a poco varrebbe, forse, tentare di controbattere con l’idea dell’urbanistica come processo, come partecipazione, come confronto quotidiano (con vincitori e vinti da entrambe le parti) fra tradizione e innovazione. Qualunque argomento possa evocare, anche indirettamente, l’architetto-demiurgo in papillon dell’immaginario popolare, è assoluto tabù: «le mura (fisiche o simboliche) sono nel nostro Dna comunale, lo scarso amore per l’inurbamento è uno dei nostri più duraturi cromosomi celti e longobardi, la voglia di bello e di identità è una costante di 3.000 anni di storia padana» (18.2.01, p. 12, Territorio e libertà, di Gilberto Oneto).

E oltre l’intemperanza verbale c’è sicuramente qualcosa di vero e giusto nel disprezzo per tutte le «astronavi», concettuali o meno concettuali, che calate dall’alto nei piccoli centri padani in epoche recenti stanno ancora lì a simboleggiare il degrado, l’incultura, l’impunità. Come a Consonno sulle colline lecchesi, dove un intero centro agricolo venne sgomberato negli anni Sessanta per realizzare una Disneyland in sedicesimo, subito affondata nel fango. O nel caso più noto di Zingonia, nella pianura bergamasca, con cinque comunità letteralmente inghiottite nei progetti esecutivi di una immobiliare dalle strategie confuse, ma dalle solide aderenze politiche.

Di tutto questo, e di molto altro, gli articoli de La Padania sulle questioni del territorio danno, a loro modo, conto. Non sono ovviamente bastati, i brevi estratti proposti, a dare un’idea dell’idea di urbanistica – ufficiale o ufficiosa – della Lega Nord, ma forse a indicare un possibile percorso di riflessione. Se è vero, come è vero, che la vulgata leghista esprime benissimo il disagio, anche se raramente ne individua percorsi risolutivi, anche per la pianificazione territoriale si può dire la medesima cosa, ovvero che dagli attacchi e proposte qui passati in rassegna emergono «sintomi», di una malattia della crescita, che devono essere colti. Come già hanno fatto alcuni studiosi, focalizzandosi proprio sui temi del progetto locale, e come ci si augura faranno in futuro molti, moltissimi altri. Per non lasciare che la domanda «l’urbanistica è di destra o di sinistra»? resti in sospeso, sostituita come in altri tempi dalla risposta apparentemente ragionevole: «l’urbanistica di sinistra è quella che praticano i partiti della sinistra». Una interpretazione piuttosto diffusa e corrente, che ha provocato (e presumibilmente provocherà) un sacco di guai. Ma questa è un’altra storia.

Nota: Questo articolo, che ho scritto nel 2000 ed è stato ripreso ancora nel 2002 da il manifesto (17 maggio in ultima), vale sia come «rassegna stampa ragionata» per chi volesse andare a ripescare in qualche biblioteca le annate de La Padania, sia come catalogo di posizioni molto vive, contraddittorie, e che si spostano vistosamente fra destra e sinistra senza per questo nulla perdere

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