La classe urbanistica va in Paradiso

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Foto F. Bottini

In principio era il verbo, ma alla fine in senso lato c’è l’urbanistica. Sembrerebbe l’ennesima battuta a effetto e pure un po’ di cattivo gusto, ma in fondo è la pura verità: nelle ultimissime pagine della Bibbia, alla fine di migliaia di vicende, generazioni, diaspore fra polveri e altari, scende dal cielo la Nuova Gerusalemme, completa di mura, porte, misure standard, paesaggio e cultura, “pronta come una sposa abbigliata per il suo sposo”. E per chi ancora non fosse convinto, ecco che dal cielo una voce inequivocabile tuona: “Ecco la tenda di Dio tra gli uomini! E s’attenderà tra loro. Ed essi saranno i suoi popoli” (Apocalisse, 21; 2-3).

Il fatto che non si tratti di una battuta di cattivo gusto, è certificato in persona dal pastore Eric O. Jacobsen, che al tema del rapporto fra rivelazione biblica, urbanistica, e ruolo della chiesa nella città contemporanea qualche anno fa ha dedicato le 190 pagine del suo Sidewalks in the Kingdom: New Urbanism and the Christian Faith (Brazos Press, Collana The Christian Practice of Everyday Life, Grand Rapids 2003).
Questi Marciapiedi del Regno, secondo Jacobsen si snodano tra le case e i negozi di una Nuova Gerusalemme nient’affatto campata per aria, ma solida, quotidiana e concreta, almeno quanto la sua Missoula, Montana, dal cui ciglio stradale fa partire il racconto. Nella migliore tradizione di Jane Jacobs (che è un riferimento esplicito e costante), o anche in quella del “critico da marciapiede” come ai suoi tempi si autodefiniva Lewis Mumford, si vedono comparire, illuminati dallo sguardo attento del pastore urbanista, soggetti e temi della città quotidiana, e sullo sfondo anche i soggetti e i temi di quanto città quotidiana non è, ovvero lo sprawl, l’insediamento disperso, il mondo dei centri commerciali e degli svincoli autostradali, il mondo dell’assenza di spazio pubblico, di community. Quello spazio tanto tipico delle città, e caratterizzante le città europee, ma che nel crescere esponenziale dell’insediamento a compartimenti stagni americano si è visto progressivamente eroso, al punto che anche le chiese, centro comunitario di quartiere per antonomasia, si sono viste transustanziare in megachurches suburbane, replica fedele del modello di consumistico shopping mall, o infantile parco a tema, o ringhiosa gated community che dir si voglia. E proprio dal silenzio sinora mostrato dalla cultura religiosa su questo argomento prende le mosse il ragionamento di Jacobsen, e da una questione decisamente “alta”: la Genesi racconta della cacciata dall’Eden, ma il nostro destino di salvezza è tornare a quell’Eden (o arcadia, o campagna scimmiottata dallo sprawl), oppure dobbiamo costruirci nelle generazioni la nostra Nuova Gerusalemme? Il pastore presbiteriano di Missoula, Montana, nonché membro del Congress for the New Urbanism, propende decisamente per la seconda ipotesi.

E ci porta per mano in un quanto meno singolare viaggio attraverso la Bibbia, e le sue idee di città: un viaggio ricco, dove lo scopo non è certo quello di mostrare erudizione e concedersi al citazionismo, ma di cercare un percorso coerente e attuale. Unica piccola concessione (e concediamogli il peccato veniale) all’approccio “erudito”, è forse la scelta di accoppiare sempre, in apertura di capitolo come nello scorrere del testo, riferimenti biblici ed autori attuali. Fino al gustosissimo ed efficace paradosso di accostare in poche righe (a p. 37) l’antiurbanesimo strisciante del progetto per la Torre di Babele, e l’individualismo di Frank Sinatra che canta: “se ce la fai lì, ce la puoi fare ovunque”, in New York New York. Oltre a questo, c’è però molto altro, che coinvolge temi come il senso di cittadinanza per un credente, o di comunità, prossimità, il tutto declinato con strettissimo riferimento all’ambiente fisico, dove ancora il racconto biblico deve dimostrare di mostrarsi all’altezza dei tempi. Efficacissima la parabola del Samaritano declinata in ambiente suburbano, con storie di benzina, bande minorili, svincoli autostradali e gente che guida fuoristrada parlando al telefonino. Il buon Samaritano che salva il viandante prende le vesti del Good Urbanite, ovvero del pedone “trasgressore”, che si muove senza automobile, cercando la città anche dove città non c’è, almeno nei comportamenti. Un’esperienza che possiamo ricordare anche noi, almeno quelli tra noi che hanno avuto qualche trascorso autostradal/pedonale, per guasto o affini.

Naturalmente nel racconto di Jacobsen trovano anche ampio spazio le considerazioni “urbanisticamente” più ovvie, ovvero quelle sul quartiere, il vicinato, l’integrazione funzionale, l’assenza di qualunque possibilità realmente comunitaria (e implicitamente di pratica religiosa autentica) nell’ambiente del suburbio. Ma il suo approccio biblico ancora una volta gli da’ una marcia in più, e consente uno sguardo storico inusuale, reso ancor più acuto dall’applicarsi all’ambiente americano, dove presenza e assenza di alcune caratteristiche sono pane quotidiano. Il termine mixed-use, e la corrispondente critica all’interpretazione burocratica e mercantilistica dello zoning, diventa così uno spaccato spazio-temporale, dove il quartiere e la città diventano la culla delle generazioni, delle arti, dell’identità, delle pietre che fungono da trait-d’union fra esperienza individuale e coscienza collettiva. Non ultimo, l’accostare i concetti di “prossimità” così come declinato dai credenti, quello di mixed-use, le politiche di rivitalizzazione e la sicurezza urbana. Accostamenti che avvengono dentro a bozzetti presi dall’esperienza quotidiana o dalle cronache dei giornali, ma che si accostano sempre a riferimenti religiosi, come il rapporto fra uso pedonale e funzionalità fisica dei marciapiedi, rapporti sociali conseguenti fra vicini e classi sociali diverse, coerenza con la memoria biblica “ero straniero e mi avete accolto”. La tesi è che lo stesso concetto di mixed-use, che sottende implicitamente inclusione, sia lo strumento che esclude estraneità, e contemporaneamente caratterizza l’ambiente urbano in cui proprio lo “straniero” è una delle principali ricchezze.

Scopo dell’urbanistica, con questi presupposti, è ovviamente quello di collaborare alla costruzione fisica e sociale di un’incrementale Nuova Gerusalemme. E il new urbanism, con il suo essere assai poco “nuovo” (perché si ispira ai valori della città tradizionale), può essere la forma migliore di urbanistica a portata di mano. Non solo perché con i suoi dettami di massima promuove spazi “a misura d’uomo” e in generale di società, ma perché è assai poco specialistico ed elitario (secondo Jacobsen, naturalmente) nel suo promuovere sempre e comunque processi di progettazione partecipata. E questo è un elemento di irresistibile attrazione per il vero cristiano, che a dire di Jacobsen “ha una relazione di cittadinanza col Paradiso”. E quindi è meglio che inizi ad esercitarsi in terra, a praticare la sua cittadinanza, a partire dai marciapiedi. Se provassimo a declinare anche laicamente il metodo del reverendo, potremmo trarne certamente utili conclusioni.

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