La danza delle tribù urbane

cycle_path

Foto J. B. Gatherer

Qualunque ciclista abituale, ormai da anni, da decenni, conosce a memoria il copione, e praticamente non ci fa neppure caso: un brevissimo momento di rischio o tensione, del tipo che il medesimo ciclista sperimenta forse centinaia di volte al giorno, ma che stavolta ha consapevolmente coinvolto anche un automobilista, a volte (più raramente) un pedone. Non succede mai nulla, salvo rallentare un po’, scostarsi, ma puntuale parte la maledizione eterna e planetaria: «Maledetti ciclisti, volete ammazzarci, volete la strada solo per voi, ma non sapete che esistono delle regole da seguire?». Il fatto è che lo sappiamo fin troppo bene che esistono delle regole da seguire, ma sappiamo anche che quelle regole sono state scritte da un secolo a questa parte tenendo in mente solo due cose: la fluidità dell’ubiquo traffico automobilistico, e condizionatamente la sicurezza dei pedoni, ovvero più o meno degli stessi automobilisti quando si stanno allontanando o avvicinando all’auto. Noialtri non entriamo proprio nel conto, o meglio qualcuno ci ha artificiosamente collocati dentro il medesimo comparto mentale e regolamentare delle automobili, saremmo dei veicoli pure noi. E invece no che non lo siamo, il cosiddetto velocipede è un pedone veloce, ma mica tanto, e in più qualcos’altro di ancora diverso.

Survival for the fittest

Succede così che il ciclista finisce per costruirsi una propria strategia piuttosto personalizzata di adeguamento, alle regole ufficiali, alle regole ufficiose (perché gli altri soggetti mica sono angeli, come ben sappiamo), al contesto più generale e alla propria tribù di appartenenza. C’è per esempio la regola della continuità del movimento, che tutti imparano prima o poi come energy-saver indispensabile in ogni trasferta, e che poi finisce per permeare di sé anche tanto altro, dal rapporto con gli incroci semaforizzati, a quello con certi attraversamenti formalmente solo pedonali, alle precedenze regolamentate. C’è anche la gestione del conflitto, interno alla tribù e con le tribù avversarie, più o meno modulata nella maggior parte dei casi, affidata al linguaggio dei gesti, anche sottilissimi come microscopici movimenti delle mani o accenni di rotazione del collo o delle spalle. Ma che poi assume volendo anche forme analoghe a quelle della road rage di stampo automobilistico, con varianti proprie in genere abbastanza ironiche e creative. Sta di fatto che tutto ciò avviene in una soggettività individuale e collettiva ristretta, che forse meriterebbe maggiore visibilità e perché no anche «istituzionalizzazione».

Hai voluto la bicicletta, e adesso non pedalare affatto!

Così come fatica a imporsi il metodo introdotto da William H. Whyte, di studiare i comportamenti di interazione con lo spazio, prima di lanciarsi in grandi regole d’oro sulla qualità teorica di quello spazio funzionale, allo stesso modo nessuno pare sentirci dall’orecchio di regole stradali meno astruse. Cioè, se all’inseguimento della logica meccanica dell’auto per decenni e decenni ingegneri giuristi o operatori hanno costruito Codici (della Strada, dell’Urbanistica, della Sicurezza …) sistematicamente altrettanto meccanici, dove al centro di tutto stava il veicolo e il sistema circolatorio dentro cui si riproduceva, adesso si vorrebbe, appunto pensando al ciclista semplicemente come motore umano delle due ruote, immaginare qualcosa di perversamente analogo, parallelo. Che altro è pensare solo e soltanto alle piste ciclabili riservate, se non riprodurre paro paro l’idea di corsie multiple con guard-rail che ancor oggi ammorba assurdamente tante vie urbane, di cui ci si è scordata criminalmente la natura? La questione, per farla breve, starebbe nel cambiare metodo, e uscire dall’approccio ingegneristico meccanico: lo strumento di studio del ciclista nel suo rapporto con la città e il territorio, con le altre tribù umane e i loro contenitori, è antropologico, e si sviluppa a partire da osservazioni dirette come quelle originarie di William Whyte. Eventuali sistematizzazioni, proposizioni di regole da sperimentare, elaborazione di elastici principi, magari lasciamole a dopo. Questa la tesi che in linea di massima propone lo studio Copenhagize Design dopo aver osservato molto sistematicamente il crocicchio sotto la finestra, un po’ alla Jane Jacobs. Ascoltiamoli, e naturalmente ragioniamo sul metodo, non come se fossimo delle fotocopiatrici: restiamo umani, come diceva qualcuno.

Riferimenti:

The Bicycle Choreography of an Urban Intersection [pdf – si scarica direttamente da Google Drive Città Conquistatrice]

Commenti

commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.