La galera della città ideale

Foto M.B. Style

Esiste una forma di autoesilio ed espiazione dagli errori collettivi altrimenti irrimediabili poco nota in quanto tale, ed è l’utopia, letteralmente il luogo che non esiste. Un eufemismo, questo «poco nota in quanto tale», perché i fondatori delle nuove comunità stili relazioni, in genere hanno sempre l’aura poetica ed eroica dei visionari rivoluzionari, non certo quella di chi si vede imposto o si impone da solo l’ostracismo rispetto allo stato di cose presente, e nello stabilirsi altrove nel sperimenta uno alternativo. Questo punto di vista in genere quasi totalizzante, in genere non tiene conto però di un fattore che in realtà abbiamo quasi costantemente davanti al naso, parlando di utopie: il loro cosiddetto «fallimento», il naufragare in una forma o nell’altra dell’intenzione dichiarata, di creare equilibri del tutto inediti secondo questa o quell’altra forma spaziale, sociale, economica, ambientale. Cioè, noi parliamo sempre di utopie che sono fallite, o che sono rimaste vive solo come affermazione simbolica di un principio, perché (sbagliando prospettiva di osservazione) non teniamo conto di quanto detto all’inizio: non hanno senso, questi nuovi equilibri, se non come fase intermedia prima di un «ritorno dall’esilio», a confrontarsi coi vecchi.

Il laboratorio di ricerca utopica

Se pensiamo a queste città-società-ambienti ideali come autoesilio o stato temporaneo di sospensione e ricerca, cioè senza scordarci il convitato di pietra degli equilibri precedenti, vediamo un contesto diverso dal solito. Ovvero non esiste una città sbagliata alla quale contrapporre una città giusta, ma poniamo una città che contiene tanti diversi elementi e fattori, in un equilibrio che non va al nostro eroe o eroina, e che si potrebbero isolare e cercare di sviluppare altrove. Ergo si prelevano, si portano in quell’altrove, li si fa crescere, e quando sono cresciuti a sufficienza si dichiara la «utopia fallita» (risate). Uso strumentale, ovviamente, questo dell’utopia fallita, per dire che non c’è nulla di riuscito o fallito, finché i risultati dell’esperimento non si confrontano con la città-società-ambiente originali. Solo allora si vedrà se c’è vita, o perlomeno se quella vita è in grado di sopravvivere e lasciar traccia di sé dentro gli equilibri preesistenti. O magari continuare, in forme piuttosto ridicole e meccaniche, a sopravvivere a sé stessa fuori contesto, riproducendosi per clonazioni non integrate, magari in fiduciosa attesa di futuri migliori, che in genere non arrivano mai. Proviamo a pensare a quanta parte delle cosiddette utopie, abbia di fatto attraversato tutti questi stadi, e comprenderemo meglio perché, è importante considerarle così, invece che nella loro teca di cristallo sempre pronta a andare in mille pezzi.

L’esilio come purificazione che prepara nuove contaminazioni

Le idee che costruiscono l’utopia, cos’altro sono se non le stesse idee che contribuivano a costruire la «città sbagliata», semplicemente estratte da lì e collocate dentro un diverso equilibrio? Famiglie, relazioni, individui, attività, tecniche e culture, arte, architetture, scienza e conoscenza, niente di tutto questo si crea decidendo di «praticare l’utopia», ma ad essa preesiste. Certo cambia la sostanza e il senso, cambiando ordine ed equilibrio ai fattori, e da lì, da quel nuovo stato creato ex novo, potrà sul serio nascere qualcosa di inedito, e pronto a confrontarsi con l’organismo madre per verificare se è in grado di cambiarlo a sua volta, oppure no. Ma a cosa serve, questa lunga e abbastanza puntigliosa premessa? Semplicemente a introdurre un tipo di utopia assai particolare come un carcere in forma di comunità «ideale», diversissima dal solito ambiente chiuso e costretto, ma che assume in pieno consapevolmente il ruolo di luogo di espiazione da un lato, e rieducazione dall’altro. Ci sono esseri umani che hanno fatto degli errori, gravi, sono stati condannati a una pena, ma le forme fisiche e organizzative del luogo e della comunità in cui si trovano sono del tipo che ricongiunge con la natura e coi propri simili, attraverso il lavoro agricolo, l’allevamento, la collaborazione. Parlare di utopia, città-società ideale, qui assume senso, appunto, solo ed esclusivamente nella prospettiva «integrale» definita sopra, perché solo a fine pena, col reinserimento nella società coi suoi vecchi equilibri, sarà possibile misurare la riuscita dell’esperimento. Non prima.

Riferimenti:
Jennifer Bowen Hicks, Prison Ecology, Orion Magazine, dicembre 2016

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