La gallina non è un animale intelligente, ma può migliorare parecchio

foto M.B. Cook

Quante volte ci è capitato di veder fare (o di combinare direttamente) una di quelle sciocchezze con gli animali domestici? Mi riferisco all’idea piuttosto infantile di «liberare dalla gabbia» qualche bestiolina non solo del tutto ignara che esista un intero universo là fuori, ma completamente inadeguata a viverci, là dentro. Un errore che si fa di continuo, lasciando canarini terrorizzati a sbattere violentemente contro muri insospettati, o pesci rossi o tartarughine d’acqua improvvisamente smarriti nell’abisso di una spanna di liquido, senza il sasso di riferimento della loro personale eternità. E tutti, regolarmente, destinati a soccombere al primo morso della fame senza vaschetta del mangime, o al primo morso del più goffo predatore che se li trova davanti indifesi e ignari. Se però in fondo non è difficilissimo arrivare a comprendere l’assurdità di queste inopinate liberazioni che sono in realtà condanne a morte civile, se non a rapida morte fisica, più complesso pare cogliere quanto decontestualizzata possa risultare la neo-liberazione di animali nell’ambiente urbano, in effetti non dissimile nel senso da quel canarino impazzito che sbatte contro il lampadario perché fuori dalla sua gabbia gli è crollato in testa il mondo, definitivamente.

Flora fauna e cemento

Cos’è quella «condizione naturale» a cui vorremmo stupidamente restituire il canarino liberato dalla gabbia o il pesce rosso rovesciato fuori dalla boccia di vetro? Se la consideriamo in modo ponderato, ovvero non come ideale astratto basato su informazioni insufficienti, ma come situazione di accettabile equilibrio tra individui e contesto esterno generale, si capisce al volo l’inadeguatezza della stanza sulle cui pareti va a sbattere il canarino disorientato, o del corso d’acqua dentro cui abbiamo rovesciato la vaschetta del terrorizzato pesce rosso. Ma il medesimo metodo ci riporta criticamente anche al punto di partenza, al fatto che fosse comunque in qualche modo innaturale anche la gabbietta o la boccia di vetro: esiste una più ragionevole e adeguata via di mezzo, o di tre quarti? Con l’urbanizzazione planetaria, ovvero la semiartificializzazione (chiamiamola pure in altro modo, ma il concetto resta identico) infrastrutturazione e civilizzazione di tutto quanto, la medesima domanda si pone sia per noi umani, sia e soprattutto in tempi brevi per la fauna che ci abita più prossima, dentro i medesimi contenitori spaziali. Cosa che vale naturalmente per gli animali domestici da affezione classici, da tempo inseriti nel pur cangiante metabolismo collettivo, per quelli selvatici urbanizzati forzosamente o volontariamente, ma negli ultimi tempi anche per una terza categoria particolarissima. Si tratta della quasi intera gamma degli «animali della fattoria», espulsi a cavallo tra XIX e XX secolo dalle mura urbane, collocati nella larga “gabbia-acquario” delle campagne, più recentemente in vari cicli di allevamento-sfruttamento semindustriale, che oggi vorremmo inopinatamente liberare intra moenia, in omaggio alla moda dell’agricoltura urbana.

Lo stato neonaturale

Agricoltura urbana è terminologia piuttosto ambigua, come sempre accade a ciò che si impone innanzitutto come tendenza e moda, coi suoi corollari di architetture, stili, pubblicazioni trendy, e quasi automatica disinformazione. Spaziare dall’eterna pianta di basilico sul davanzale a certi progetti piuttosto surreali di grattacieli vertical farm (senza che nessuno spieghi mai in termini di mercato il loro significato), a concetti pure immaginati che ricordano la ruralizzazione delle città di epoca tra le due guerre mondiali, favorisce certo la confusione, che aumenta quando vengono coinvolti quegli esseri viventi dotati di personalità che sono gli animali da cortile. Pensiamo solo al caso apparentemente semplicissimo delle galline, tra i primi a presentarsi alla ribalta in questo revival agricolo: siamo davvero certi che si tratti si una specie di gatto domestico che però non fa le fusa e depone delle uova? E poi da un ulteriore punto di vista, non sarà che traslocare di punto in bianco la «pollicoltura rurale» in città non assomigli troppo al liberare il pesce rosso dalla boccia di vetro al torrentello in montagna? Perché città vuol dire densità, anche di galline, una rete di presidi e controlli sanitari magari non adeguata a questi nuovi inquilini, che non a caso insieme a cavalli vacche maiali sono stati espulsi per questioni sanitarie decenni or sono. Ci sono problemi seri, di ordine medico, sociale, urbanistico, e pare davvero il caso che le amministrazioni pubbliche intervengano, in termini via via più unitari, consapevoli, coordinati, a mettere ordine nella materia. La personalità della gallina, e quelle che verranno di tanti altri nostri cugini e colleghi urbani, ha diritto almeno a questo.

Riferimenti:
– Catherine Brinkley, Jacqueline Kingsley, A chicken in every backyard: Urban poultry needs more regulation to protect human and animal health, The Conversation, 3 aprile 2018
– Catherine Brinkley, Jacqueline Scarlett Kingsley, Joy Mench, A Method for Guarding Animal Welfare and Public Health: Tracking the Rise of Backyard Poultry Ordinances, Journal of Community Health, gennaio 2018 (scarica il pdf dell’articolo scientifico direttamente da Drive Città Conquistatrice)

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