La politica urbana è politica & basta

Foto F. Bottini

I leghisti vogliono mandarci tutti a vivere in cantina? Così ipotizzava con surreale fulminante battuta un’amica urbanista presentando l’ennesima trovata dei nostri destrorsi localisti padani, nome ufficiale «Legge per il recupero dei piani seminterrati esistenti». Per nulla surreale invece, il concetto essenziale alla base della pensata, ovvero di trasformare milioni di metri cubi di valore pari a quasi nulla, in solido valore immobiliare, consentendo ufficialmente di far diventare quei seminterrati spazi di abitazione, o attività economica, cosa sinora proibita. Manovra già riuscita tempo fa coi solai, e che oggi si ripropone «coerentemente» all’altra estremità del fabbricato, per così dire. Ma pare comunque piuttosto significativo, che siano i leghisti a spingere la legge underground, che in fondo ben si addice al loro elettorato geograficamente o mentalmente suburbano, villettaro e cantinaro, del tipo che la «tavernetta» da sempre la abita di fatto. Probabilmente l’abbiamo tutti, il parente o il conoscente che da sempre sta dentro quel buco ufficioso a far qualcosa, magari per la maggior parte del suo tempo se si tratta di una attività professionale. Ed è vecchia abitudine, ereditata dai genitori che, costruita la casetta nuova nella vigna del nonno, non avevano cuore di sporcare la «sala buona» coi loro piedi contadini, e abitavano in quel seminterrato, reso meno rustico da qualche pannello di legno e da una buona imbiancatura.

Bassa densità reazionaria

Quel che non si coglie, insomma, è che la politica fa di tutto per confermare e moltiplicare anche sul territorio, la propria individuata constituency di riferimento, lo zoccolo duro che mai farà mancare il consenso a chi ne capisce tanto bene i bisogni: il nido familiare, il laboratorio annesso completo di garage triplo, il salotto di rappresentanza. Ambiente ideale quello suburbano, ex rurale, delle basse densità assolute, ma senza escludere anche quel «suburbio di ritorno» rappresentato dalle varie propaggini urbane dei nostri centri maggiori e minori, che urbane non sono affatto negli stili di vita, nelle aspirazioni, nell’organizzazione sociale materiale. I medesimi posti in cui la cultura zero dello spazio pubblico e dell’interazione tra diversità (che dovrebbe stare alla base dell’urbanità) produce quelle cicliche manifestazioni di rifiuto anche violento, cavalcando pur oggettivi disagi da difficile convivenza, del resto resa anche più complicata esattamente da quel contesto. Meglio nasconderli in cantina, i problemi, che risolverli, pare dire la cultura suburbana reazionaria in cui affonda le radici il partito localista italiano. E lo fa del resto in modo analogo a tutti i suoi cugini fasciopopulisti del mondo, esprimendo e sostenendo ogni politica territoriale che rafforza il suo modello. E che andrebbe letta esattamente in quella prospettiva, invece di essere presentata e magari pure aspramente criticata, ma secondo vedute che non ne colgono l’organicità a una visione più ampia.

La città è progressista, il suburbio reazionario

Quante volte ad esempio leggiamo serie pressoché infinite di appelli contro le autostrade «inutili», che concentrandosi su fattori finanziari, o ambientali (l’inquinamento, la dipendenza dal petrolio importato, l’immancabile «cementificazione») saltano a piè pari il ruolo chiave di queste infrastrutture, di vera e propria dorsale sociale dell’insediamento disperso, a sua volta perfettamente a misura delle forze politiche più tradizionaliste e familiste? Eppure esiste, non certo da oggi, una copiosa letteratura internazionale, politologica, sociologica, economica, a spiegarci quel meccanismo di sostanziale segregazione, in cui sia gli individui che i nuclei familiari che le imprese, specie di piccole dimensioni, da un lato si ritagliano un francobollo di monopolio, dall’altro perdono l’occasione di interagire, delegando qualunque visione non claustrofobica ad altri livelli decisionali. Fantastica metafora di tutto ciò, mai effettivamente colta nella sintesi che propone, il cul-de-sac (che non a caso significa vicolo cieco) residenziale o terziario-industriale-commerciale. Universo ballardiano dove tutto succede ma nulla entra o esce, se non filtrato dalla discrezionalità assoluta della grande arteria, esclusiva per natura. È lì dentro, che diventa quasi ovvio decidere la perfetta «abitabilità» di un locale dove prima si pensavo potessero stare solo topi, ragnatele, attrezzi e qualche scatolone. Certo che, se il pensiero progressista continua a proporre una sola riduzione burocratica e parziale del danno, senza cogliere il senso di cosa dovrebbe significare la parola «alternativa», non si va da nessuna parte. Gli amici del Los Angeles Times, invece, dall’editoriale linkato di seguito parrebbero aver colto la differenza: quante generazioni dovremo aspettare, noi?

Riferimenti:
Urban or suburban? L.A.’s very identity is at stake in the March election (editoriale della Direzione), The Los Angeles Times, 28 gennaio 2017
– Serena Righini, Andiamo a vivere in cantina, Eddyburg 23 gennaio

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