La qualità urbana? La capisce anche un bambino!

Foto M. B. Style

Per generazioni, forse addirittura da sempre, non esiste coppia di genitori che non abbia pensato, e soprattutto che non si sia sentito dire o addirittura quasi imporre: adesso che sono arrivati i bambini, sarebbe ora che vi trasferiste in un posto più adatto a farli crescere. Esiste un vero e proprio meccanismo culturale sociale e di mercato che segue e accompagna la leggenda metropolitana dei bambini che in assoluto crescerebbero in un ambiente ideale allontanandosi da quello urbano. Le motivazioni specifiche ruotano attorno al tema spazio e salute: i bambini fuori città avrebbero più contatto con la natura, prati e boschi, oltre che in generale luoghi più ampi anche in casa per giocare ed esprimersi, gli stessi luoghi che sarebbero più sani, puliti, che in città, e dove non si fanno quei brutti diseducativi e pericolosi incontri. La risposta organizzata a questa aspirazione (che in realtà è dei genitori assai più che dei bambini) offerta dal mercato, e più o meno da sempre, è l’abitare suburbano, non certo l’impossibile e assai poco auspicabile riaggiustare le lancette dell’orologio verso un passato rurale arcadico, a lume di candela duro lavoro e tutto il resto.

Aspettative sogni e realtà

Come sappiamo molto bene, in realtà il suburbio è una specie di riproduzione molto imperfetta dell’ambiente urbano a bassa densità, in cui all’incremento relativo di alcuni spazi (la casa che costa meno a unità di superficie, il giardino privato caratteristico della abitazioni unifamiliari suburbane) si somma una serie di altri elementi, dalla rarefazione dei servizi e degli stimoli alla vera e propria invasione delle auto private, che letteralmente cancella i ricercati vantaggi della cosiddetta immersione nella natura. Per un minore infatti stare immersi in quel mare di veicoli significa dover dipendere da chi guida per uscire dalla propria abitazione a qualunque scopo, visto che quasi sempre anche quando il vicinato ha qualche forma di sicura pedonalizzazione interna, questa serve a raggiungere piccoli spazi comuni di prossimità, o al massimo le abitazioni adiacenti. Si capisce dunque che, si parli del centro urbano tradizionale con tutti i suoi oggettivi problemi, o si parli del suburbio reale sfrondato di sogni impossibili e ideologie, una «città dei bambini» non è da ricercarsi nella fuga verso l’utopia, ma nella riforma di quel che c’è: più verde, più natura disponibile, più spazi per il gioco, l’istruzione, la salute, il benessere e gli stimoli vari che fanno crescere sereni attivi attenti.

E se va bene a me va bene a tutti

Non per nulla da questa constatazione nascono da decenni tutte le iniziative per spazi a misura di bambino, ovvero pensati con criteri alternativi a quelli meccanico-produttivi otto-novecenteschi, dove tutto quanto non era legato al lavoro e alla produzione di profitto in pratica si considerava secondario e marginale, la «riproduzione forza lavoro». Perché il bambino, come in altri casi comunque il cosiddetto soggetto debole, oltre che persona portatrice di diritti e bisogni si può considerare una sorta di cartina di tornasole per la qualità urbana. In fondo i vantaggi di spazi e servizi amici dei minori sono vantaggi anche per tutti i cittadini, la possibilità di giocare all’aperto e muoversi liberamente, l’accesso ad ambienti naturali, significano qualità di cui poi in un modo o nell’altro possono fruire tutti, qualità urbane generali, quelle che alzano quei ratings internazionali, solo per fare un esempio. E ci avevano visto giusto quelle generazioni di insegnanti, genitori organizzati, attivisti e studiosi che per tanti anni avevano animato discussioni e battaglie in questo senso. Non si sa però se, di fronte al medesimo testimone impugnato da un grande studio di architettura globale, si debba essere soddisfatti dell’affermazione di un metodo, o perplessi di fronte a una specie di gentile ma innegabile scippo: non è certo una scoperta scientifica, questa del bambino come cartina di tornasole della qualità urbana. Speriamo se non altro che la capacità comunicativa tipica di queste strutture professionali, riesca a farsi sentire meglio con le amministrazioni locali, di quanto non sia accaduto sinora agli attivisti.

Riferimenti:
ARUP, Cities Alive: Designing for Urban Childhoods, rapporto dicembre 2017

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