La trappola filosofica di Expo Theme Park

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Foto F. Bottini

«Se non riuscite a dormire di notte per quello strano rumore che sale dalla strada, sappiate che è solo il fruscio del vostri soldi aspirati lontano». Così qualche anno fa il presidente di una associazione commercianti americana riassumeva a modo suo uno dei tanti impatti negativi dell’insediamento di un gigante big-box nel suo territorio. L’efficace per quanto assai parziale metafora, evidentemente un po’ troppo appesa per ovvi motivi alla corda del portafoglio e agli istinti localisti, coglieva però molto bene l’effetto risucchio-svuotamento da sempre caratteristico dell’insediamento commerciale suburbano, almeno sin da quando si era perfezionato il modello architettonico-urbanistico e il relativo modus operandi (di cui quel modello fisico è solo una delle tante conseguenze), che presiede le strategie degli operatori. Non è certo un caso se, quasi subito e contemporaneamente, circa a metà del XX secolo, il cosiddetto inventore dello shopping mall introverso moderno, l’architetto Victor Gruen, cercava in un articolatissimo saggio sulla Harvard Business Review di uscire dalla trappola in cui in pratica si era cacciato da solo, proponendo di spostare il medesimo metodo alle aree urbane, che ne sarebbero così state beneficiate non solo riequilibrando i conti col suburbio, ma anche innestando virtuosi processi di riqualificazione. Il povero Gruen con tutta la sua innocente boria da progettista demiurgo di era razionalista, ma allevato da sempre nel vivaio degli interessi commerciali, non aveva proprio capito il suo vero contributo allo scatenamento del mostro-aspiratutto territoriale.

Il parco a tema fiera della pappatoria moderna

Venendo ai nostri giorni, in effetti pare adesso un po’ esagerato stupirsi per l’effetto risucchio, e di proporzioni piuttosto giganti, che sta avendo il sito Expo, sia sul tessuto socioeconomico della regione urbana milanese, sia sui temi fondativi dell’evento. Per provare strumentalmente una lettura «alla Gruen» proviamo a riassumere in poche battute la vicenda del piano urbanistico e tematico. In principio era l’Orto Planetario, proposto dal gruppo internazionale di architetti-urbanisti e in sostanza anche dal comitato scientifico, che avrebbe dato un senso coerente sia di contenitore all’area scelta e necessariamente dedicata agli eventi centrali (questo è da sempre il modus operandi delle esposizioni universali), sia di fatto qualificando il resto dell’area metropolitana, con le sue varie eccellenze ambientali e di produzione-proposta alimentare. In pratica pur accettando come era inevitabile le infinite spinte di interessi particolari che si focalizzano su un evento del genere, quel fare dell’area un puro contenitore di spunti culturali, magari marginalmente guarnito di servizi commerciali e non all’utenza, provava molto seriamente a evitare l’effetto aspirapolvere. Che invece, con le scelte piuttosto ottuse e speculatrici messe in campo sin dall’inizio e con premeditazione ultraconservatrice, sia da parte delle autorità locali di centrodestra che da parte del BIE («un orto di melanzane non interessa a nessuno» così riassumevano i giornali le dichiarazioni di un alto esponente), ha finito per prevalere. Oggi, come osserva anche da molto lontano certa attenta stampa internazionale, l’effetto lustrini e insegne sfavillanti tipico dei centri commerciali e dei parchi tematici suburbani, con le scelte architettoniche e urbanistiche messe in campo scatta inevitabile.

«Ascoltate il fruscio del temi Expo che vengono risucchiati lontano»

Ultimo piccolo ma significativo simbolo, di questa logica concentratrice micidiale imperante da retailtainment suburbano postmoderno, la decisione dell’ente di prolungare gli orari serali di apertura visto l’enorme successo delle attrazioni «secondarie» commerciali e spettacolari. Vivamente contestato dalle amministrazioni locali che ovviamente rappresentano gli interessi di tutte le altre attività analoghe, ovvero quelle che avevano considerato e considerano Expo e il suo sito dedicato alla stregua di un «volano», magari da manovrare a piacere. Per intenderci, un po’ come se Disneyland si facesse condizionare nelle sue scelte di fondo dall’associazione titolari di chioschi di bibite accampati tra i parcheggi, sempre che ne siano ammessi. Diciamo che stanti come stanno le cose, la posizione degli oppositori è analoga a quella dei preti e dei conservatori in genere, quando ritengono che le aperture domenicali dei negozi rubino clientela alle loro iniziative religiose o familiari tradizionali, e si lanciano in disquisizioni piuttosto ridicole sulla sacralità della festa (poi massicciamente smentite dalle preferenze della stragrande maggioranza della popolazione, che ha poco senso liquidare come ipnotizzata da compulsivo consumismo). Posto che questo è il pasticcio, sia funzionale che tematico, perché la stessa cosa vale anche per il dibattito sull’alimentazione del pianeta e la produzione agricola globale, ridotti a una specie di angolo o chiosco specializzato dentro il grande baraccone, va detto che esistono almeno due percorsi per provare almeno a esorcizzare il rischio peggiore.

Il parco a tema diffuso

Il primo passo sta proprio nel riconoscere che non aver davvero considerato – prima e poi – le vere potenzialità del progetto Orto Planetario, sia per il sito in sé che per le tematiche dell’evento, ha condotto quasi fatalmente alla situazione attuale. Che riproduce per filo e per segno le infinite vicende locali/globali della grande distribuzione-erogazione di servizi extraurbana, finendo per polarizzare spazi, polemiche, e mettendo in luce una spesso patetica guerra tra poveri, mentre i grandi interessi si fregano le mani disinteressandosi dei territori che stanno prosciugando. Una volta compreso questo errore di polarizzazione, che dovrebbe quantomeno indurre a riconsiderare anche in positivo tutto il successo mediatico del divertimentificio, sempre che si possa almeno un po’ integrare in quanto veicolo di divulgazione dei temi centrali, si tratterebbe di recuperare almeno il metodo sotteso all’idea originaria, che considerava quel luogo, insieme all’idea dell’alimentazione globale, solo e coerentemente in funzione strumentale. Ovvero, scavalcata concettualmente la logica monofunzionale specializzata del polo di qualsivoglia eccellenza, per quanto apparentemente auspicabile, e recuperando il vero respiro almeno «locale» dell’idea di integrazione, seguire la logica strategica di chi per il dopo Expo prova a indicare qualcosa che va al di là dell’ennesima cittadella tematica (che su un altro piano riprodurrebbe risucchi analoghi). Ovvero, invece di un progettone pubblico-privato per valorizzare quel rettangolo tra le autostrade dove ora si celebra la fiera della pappatoria e della movida notturna internazional-popolare, svuotando di senso territorio e dibattito, un piano di scala metropolitana che pure senza schivare la questione di quelle aree ricomponga il complesso mosaico delle evoluzioni in atto. Senza negare che ci sono degli interessi belli grossi in campo e in gioco, ma mettendo sul tavolo delle trasformazioni e delle aspettative anche quella collettività, composta non dimentichiamolo anche dagli operatori piccoli, medi e grandi non monopolisti, sempre evocata oggi solo come pubblico pagante.

Riferimenti:

Oliver Wainwrigh, Expo 2015: what does Milan gain by hosting this bloated global extravaganza? The Guardian, 12 maggio 2015
Le citate riflessioni vintage di Victor Gruen, piuttosto interessanti per conto loro, disponibili  in italiano, nella sezione Antologia di questo sito, Il metodo del centro commerciale nella riqualificazione urbana (1954)

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