La vitalità urbana degli anni 2000

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Foto M. B. Fashion

Spiace a tutti in fondo quando chiude un’attività commerciale in una via: con la rarissima eccezione di esercizi squallidi o fracassoni detestati dal vicinato, una saracinesca che si abbassa con la prospettiva di restare così più o meno in eterno, evoca degrado, silenzio irreale, meno sicurezza, certamente meno cose da fare in città. A volte però pare meglio ragionare in termini meno conservatori, considerando il cambiamento per quello che è, ovvero il sale della vita urbana: il vuoto non esiste, a ben vedere, qualcuno in qualche modo lo riempirà di sicuro e in fondo sta a noi fare in modo che le cose vadano nel migliore dei modi possibile. Perché se un’attività chiude certamente ci deve essere un ottimo motivo. Era viva e vivace ma in modo artificioso e non ha retto a un minimo cambiamento degli equilibri magari giusto dietro l’angolo, oppure muore per lasciare il posto a qualcosa di molto meglio che dovremmo solo imparare a conoscere e usare, ma al momento ci è sconosciuto. La reazione peggiore è quella di irrigidirsi su un modello, magari capito male o realizzato peggio, per pura fede cieca, e continuare a ribadirlo anche quando risulta evidente la sua crisi. L’unità di vicinato per esempio, ha avuto e ha tutt’ora alti e bassi del genere.

Forme, funzioni, equivoci

Basta ricostruire brevemente le vicende del cosiddetto «quartiere integrato» per definire un esempio molto pratico di quanto sopra. Nato da osservazioni puramente sociologiche e comportamentali, sviluppate poi in una ipotesi spaziale di massima, il modello neighborhood unit ha una origine di specchiato metodo scientifico ed empirico: si osserva cosa funziona e si prova a sistematizzarlo. L’errore sta poi nell’interpretazione cristallizzata, o elastica in un senso solo, del modello stesso da parte di chi lo replica all’infinito in contesti del tutto diversi, probabilmente ignorandone la genesi. Succede così che quel metodo (guardare i flussi di utenza di un servizio o funzione, e governare o incentivare la vitalità) smette di essere tale, si fossilizza esclusivamente lo schema spaziale di una serie di residenze e percorsi che fanno riferimento al polo centrale di una scuola con annessi eventualmente verde e negozi, anche quando è vistoso che le cose non vanno affatto bene. Perché ad esempio la «scuola» da cui tutto ha origine nei primissimi lustri del ‘900 non svolgeva affatto solo funzione educativa, e non era frequentata solo da alunni e insegnanti nelle ore di lezione. Il solo ridimensionamento in quel senso, avrebbe dovuto accompagnarsi per esempio all’aggiunta di un altro «motore di vitalità locale», cosa che non è affatto avvenuta, e ben sappiamo cosa succede al centro dei nostri quartieri popolari cocciutamente progettati con quel modello. Identica cosa è avvenuta poi con certe altre configurazioni spaziali interpretate rigidamente: dai contenitori commerciali di quartiere in assenza di domanda (e di politiche per promuoverla eventualmente), alla rete dei percorsi non automobilistici poco coordinati e permeabili, eccetera. E arriviamo all’ultima intuizione, il cosiddetto TOD transit-oriented-development.

Polo di interesse: ma quale?

Il cosiddetto quartiere della stazione in fondo discende direttamente dall’antico punto di cambio dei cavalli: un luogo in cui convergono per forza di cose una serie di percorsi e funzioni e interessi. Si tratta però di saperli governare, i flussi, e di chiarire fino a che punto il laissez faire giova davvero alla qualità (visto che questa è la tesi di alcuni). Perché negli anni più recenti, complice la crisi della città basata sull’automobile e con tutto quel che di positivo o negativo ciò comporta, sembra che a quell’antica centralità del polo scolastico e di servizi socio-culturali si stia sostituendo il nodo di trasporti, o meglio il transit-oriented-development che tradotto criticamente significherebbe «trasformazione urbana indotta dal trasporto collettivo». Ma sappiamo che tradurre in pratica è sempre tradire, e in agguato c’è sempre il rischio che certi modelli interpretati rigidamente finiscano per provocare disastri. Ad esempio quando pur di favorire in ogni modo la crescita di questi sedicenti poli di vitalità, magari di vitalità che taglia emissioni di scarichi facendo scendere gli automobilisti dai loro veicoli, si lascia briglia sciolta al mercato immobiliare in termini di densità, funzioni, forzature. Oppure, quando sono gli operatori dei trasporti, magari monopolisti locali come ferrovie o metropolitane, a decidere autonomamente i modi della trasformazione, vuoi col classico shopping mall di corrispondenza gestito in quanto tale (a mettere addirittura in secondo piano la funzione trasporti), vuoi improvvisando operazioni di valorizzazione urbana che valorizzano solo gli interessi degli operatori. Probabilmente, tornare al vecchio metodo dell’osservazione dei flussi di interesse e vitalità reali è sempre metodo migliore: per giudicare ed eventualmente provare a prevenire i disastri.

Riferimenti:
Laura J. Nelson, Transforming Union Station from a transit hub to an urban destination, Los Angeles Times, 9 aprile 2016

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