Viaggio in Italia (1949)

muratori_1949Fra tutti i paesi, l’Italia è forse quello che più sa unire elementi di interesse paesaggistico, architettonico e storico. La visita organizzata dalla Town and Country Planning Association, nasce dal desiderio di capire ciò che sta accadendo oggi, dal punto di vista urbanistico nella ricostruzione. Ma molti tra noi, in Italia per la prima volta, volevano abbastanza logicamente visitare i monumenti più famosi, e le «vedute». I nostri ospiti italiani, allo stesso modo, erano ansiosi di mostrarci sia il passato che il presente. E fin troppo ottimisti sulla nostra capacità di reggere alle tante cose che si possono fare e vedere in un sol giorno. Insomma un programma un po’ sovraccarico, anche per il bellissimo tempo ma un po’ troppo caldo. E alcuni di noi hanno finito per sentirsi in colpa per essere andati a vedere il Palazzo Ducale di Venezia o la Galleria degli Uffizi quando in teoria dovevano visitare un impianto idroelettrico. Altri al contrario si vantavano di dedicare a complessi di moderne case economiche le ore che avrebbero invece voluto passare davanti alle opere di Giotto o Leonardo da Vinci. Comunque sia, il nostro giro ci ha fornito un’ottima immagine generale dell’Italia: il territorio, cosa sta accadendo, i problemi.

Città, gente, mestieri

Forse è utile riassumere qualche dato sull’Italia. Il paese, incluse le due grandi isole della Sicilia e della Sardegna, ha una superficie di 310.000 kmq (del 23% superiore a quella della Gran Bretagna) e una popolazione di 47 milioni di abitanti, che cresce di circa 250.000 ogni anno. Gran parte del territorio è montuoso, e piuttosto arido; ma solo il 10% non coltivato. L’agricoltura è di gran lunga l’attività principale, con otto milioni e mezzo di lavoratori impegnati nel settore, contro i meno di un milione in GB su un totale di 49 milioni di abitanti. Nel 1938 erano a cereali 7.300.000 ettari di superficie, circa un milione a vite, 800.000 a ulivi, 9.000.000 di ettari a pascolo, 5.600.000 a boschi. Viticoltura, uliveti, e il milione e mezzo di ettari dedicato al mais, rappresentano le differenze più spiccate rispetto alla nostra agricoltura britannica.

Data l’assenza o quasi di giacimenti di carbone, con una produzione di acciaio che è solo un sesto, un settimo di quella della Gran Bretagna, in Italia scarseggiano le grandi città. Esiste comunque un diffuso e avanzato settore manifatturiero, in particolare per la seta e le fibre sintetiche, comparto chimico, cantieristica, meccanica; e una notevole esportazione di questi prodotti, oltre che di alimentari e vino. Nel 1940 erano 65 le città con oltre 50.000 abitanti, ventidue delle quali oltre i 100.000, cinque oltre i 500.000 e due oltre un milione. Fra le più grandi che abbiamo visitato ci sono Roma (1.400.000 ab), Milano (1.250.000 ab), Napoli (877.000 ab), Genova (630.000 ab.), Firenze (331.000 ab), Bologna (280.000 ab), Venezia (163.000 ab), Livorno (129.000 ab), Ferrara (120.000 ab), La Spezia (112.000 ab). L’unica fra le grandi città che non abbiamo visitato è stata Torino (659.000 ab).

Città da sogno, sovraffollamento da incubo

Il visitatore urbanista in Italia ne ricava due nette impressioni. La prima è quella di una spettacolare bellezza di città e cittadine medie, con la loro miriade di stradine e edifici. Dickens era così sopraffatto da Venezia, da riuscire poi a renderle giustizia solo descrivendola come un sogno. Dopo un viaggio così breve è effettivamente difficile accettare la realtà di una tanto incredibile concentrazione di torri, cupole, ponti, centinaia di chiese e palazzi, canali che sono vie e vie che sono vicoli. L’idea corrente di come debba essere la pianta di una città, la sua organizzazione, certo non vale in posti così. Sarebbe follia concepirne una e realizzarla in quel modo strano, un crimine pensarla in termini utilitaristici. Accenderei centinaia di candeline a San Marco per ringraziarlo del fatto che Venezia esiste, e altre centinaia perché non sono il suo capo ufficio tecnico, non devo decidere che fare di quelle conigliere sovraffollate un tempo dimore di principi mercanti.

Il che ci porta alla seconda impressione sul paese: quella sull’orrendo stato delle abitazioni italiane. Nel 1931 ben il 56% della popolazione abitava a densità superiori al criterio prefissato di un abitante e mezzo stanza, e al Sud la percentuale saliva oltre il 75%. Mancavano 7.500.000 stanze quindi. Fra il 1931 e il 1941 la popolazione è cresciuta del 10,2%, le abitazioni solo del 6,6%, e nel 1948 il deficit era calcolato in 11.135.000 stanze. Entrambe queste due impressioni, certo opposte, ci accompagnano nella nostra visita. Tra le alture incantate del percorso da Genova a Pisa attraverso Rapallo e La Spezia, o poi verso nord da Roma a Assisi, Perugia, Firenze, Bologna, abbiamo visto centinaia di piccoli perfetti paesaggi urbani, villaggi raccolti attorno a chiese o castelli sulle colline. Abbiamo attraversato cittadine di incredibile fascino e varietà architettonica. Per fabbricare, secolo dopo secolo, uno scenario così, il popolo italiano deve possedere senz’altro una eccezionale sensibilità e senso estetico. Ma non si comprende come possa tollerare questo livello di squallore quotidiano attuale.

Cultura e democrazia industriale

La risposta senza alcun dubbio si trova nella storia economica e sociale. Architettura e arti possono crescere solo quando la società, o una sua parte, si trovano al di sopra del livello di sussistenza. Serve un ceto di operatori non costretti a passare tutto il proprio tempo coltivando la terra, una classe dirigente o di ricchi in grado di governare e finanziare la produzione della bellezza. Alcuni ritengono che nel periodo ellenico l’architettura era basata su uno spirito pubblico e civico, che nessuno aveva interesse a conferire grandezza a palazzi privati. Una teoria che non mi convince troppo. Mi pare assai più probabile che esistesse invece un ceto di ricchi mercanti o guerrieri a costruirsi e ornarsi palazzi, da Mileto a Atene, o più tardi a Roma, così come oggi accade a Bertchesgarden o sulla Quinta Strada; e che ricchezza, potere, idealismo, magari paura della dannazione eterna, si mescolassero sino a far traboccare quel lusso verso verso i templi degli dei, le piazze, le arene.

Se questa ipotesi sulla storia dell’estetica è vera, le masse che si collocano al di sotto del livello di sussistenza forse possono assistere allo spettacolo di splendide architetture, o pregare in magnifici templi e chiese, ma non fanno parte del sistema che le produce. La struttura complessiva di città come Firenze o Venezia mi pare confermi questa teoria, anche se forse è un po’ schematica. Le chiese di Venezia altro non sono che la proiezione, nella sfera pubblica, della magnificenza domestica dell’aristocrazia mercantile cittadina. Il lusso della Cappella Medici a Firenze è un ottimo esempio di convergenza tra fervore religioso e amore del prestigio. Godiamoci il fatto che i potenti del passato abbiano preferito spendere in architettura anziché in giornali o corse di cavalli. Ma nessuno riuscirà a convincermi che i contadini e artigiani italiani possano essere stati qualcosa di diverso da semplici spettatori passivi di questa magnifica fioritura artistica.

Oggi in Italia, così come in altri paesi industriali, cresce la consapevolezza sulle situazioni abitative della maggioranza dei cittadini, parallelamente allo sviluppo della coscienza democratica. L’enfasi si sposta dalla grandiosità architettonica e dal godimento artistico (o tecnico), verso una maggiore abitabilità. Mi colpiva in un primo tempo, che a fronte della grande tradizione progettuale nazionale, che esistessero tanti edifici così spogli e squallidi da competere al peggio col resto del mondo occidentale. Ma c’è una spiegazione semplice: oggi gli ordini non sono certo impartiti da Dogi, Principi, Cardinali, dalle ricche famiglie che comandavano un tempo. Ma da direttori, responsabili amministrativi, società, professionisti, sindaci, la cui carriera dipende dal consenso o dai voti alle prossime elezioni. Direttamente o indirettamente, il nuovo potere deve rispondere a domande collettive urgenti, molto prima di recuperare l’antica cultura.

Ricostruzione e trasformazione

Comunque in Italia sopravvive ancora l’arte del costruire. Siamo restati stupefatti trovando un centinaio di persone intente a ricostruire il Monastero di Montecassino, e un altro corposo gruppo al lavoro con l’Ospedale Maggiore rinascimentale di Milano. Muratori ripristinavano facciate, specialisti restauravano mosaici, pittori recuperavano affreschi. Qualcuno continuava a pensare a quegli undici milioni di stanze che ancora mancano, ma non possiamo dimenticare che in Italia la chiesa fa parte della vita delle masse, che esiste necessariamente una manodopera altamente specializzata in un paese con così tante architetture di prestigio, e non ultimo quanto il turismo sia uno dei principali settori economici del paese, coi turisti che vengono proprio a vedere quegli antichi monumenti. Come abbiamo potuto osservare a Santa Maria delle Grazie a Milano, la professionalità di quel lavoro è di tale livello da poter restaurare qualunque cosa.

Ciò ci porta a parlare del triste aspetto dei danni di guerra, di cui i nostri ospiti hanno fatto sì che potessimo osservare qualche esempio. I centri industriali o portuali, da Milano a Genova a Livorno, Gaeta, Bologna, hanno subito danni del tutto paragonabili a quelli delle nostre città britanniche. A Firenze l’area del centro storico attorno a Ponte Vecchio è stata ridotta in macerie dai tedeschi in ritirata, nonostante il ponte in sé non abbia subito il medesimo destino degli altri tre. Lungo tutta la linea mobile del fronte bellico nel centro del paese, molti piccoli centri sono stati letteralmente spazzati via. Tremila ponti e migliaia di chilometri di strade distrutti o severamente danneggiati, e poi diecimila chiese e edifici pubblici. Anche le abitazioni ne hanno sofferto, 2.600.000 vani distrutti o gravemente danneggiati, più altri 3.228.000 con danni meno gravi. In una situazione di carenza di alloggi, ciò complica ulteriormente il problema. C’è un programma dodecennale per la realizzazione di sei milioni di stanze, che dovrebbe ridurre il fabbisogno alla metà. Esistono anche piani per i «senzatetto», e avanza il ripristino di strade e ponti, dove si dimostra una grande capacità sia tecnica che artistica nell’immane sforzo.

Del miliardo e mezzo di sterline [non ho neppure tentato una conversione in lire italiane, ragionevolmente impossibile a quella data n.d.t.] del programma su dodici anni, 1.060.000.000 è destinato alla costruzione di case, 276 milioni a strade, ferrovie, porti, canali, 100.000.000 a edifici pubblici, 83 milioni a scuole e ospedali, 14.000.000 a edifici religiosi. Notevole il piano idroelettrico, con l’obiettivo di raddoppiare la produzione attuale per un investimento di 600 milioni di sterline. Il livello di vita del paese in futuro dipenderà proprio da questa disponibilità di energia idroelettrica.

Urbanistica: stato dell’arte

Devo ammettere che, entro questo impressionante programma di ricostruzione e nei progressi compiuti, l’urbanistica come la intendiamo noi ha un piccolo ruolo. Non esiste un ministero specificamente responsabile per la materia, e ciascun dicastero persegue i propri obiettivi, senza neppure quei ripensamenti che vediamo a volte in Gran Bretagna. Gli urbanisti italiani considerano inadeguata la Legge del 1942, così come il Decreto sui Piani di Ricostruzione del 1945, specie per le grandi città. Ci sono poteri di esproprio e trasformazione per le aree colpite dai danni di guerra, ma l’opinione pubblica non è interessata, e vengono sfruttati poco. Spesso si sviluppano però ottime analisi, dibattiti, divulgazioni, come nelle aree di Milano e Torino, dove gruppi di lavoro hanno predisposto piani ispirati ai principi di decentramento industriale e quartieri integrati. In stato di avanzata elaborazione un piano per ricostruire la città portuale di Gaeta. In generale però all’entusiasmo degli urbanisti sembra corrispondere uno scarso interesse e azione da parte dei pubblici poteri.

Va riconosciuto che molta parte dei centri minori è stata riprogettata e ricostruita; di norma, notiamo, in zone diverse dalle aree vecchie. Progetti che ci sembrano decisamente pratici anche se non eccelsi, con edifici a cui manca fascino. Uno dei motivi è la difficoltà coi materiali, e forse non abbiamo avuto modo di valutare con la dovuta attenzione la qualità di questo impegno, perché certamente l’energia profusa in queste piccole cittadine è da ammirare. Solo in due occasioni abbiamo potuto scambiare francamente idee con gli urbanisti italiani, fra cui abbiamo rilevato posizioni discordanti analoghe a quelle britanniche prima del New Town Act.

Molti fra loro manifestano interesse per le nostre politiche di decentramento, green belt, nascita di centri minori, rilocalizzazione industriale. Non si è certi che qualcosa del genere sia praticabile in Italia, ma mi è stata mostrata una pubblicazione che riassume tutto il pensiero di Ebenezer Howard, molto ben presentato. Se avranno successo le iniziative per rafforzare il ruolo dell’urbanistica, certo ne nascerà qualcosa di innovativo. Nelle nostre visite siamo stati intrattenuti da sindaci, prefetti, rappresentanti delle organizzazioni professionali di urbanistica, per discutere pur coi limiti della lingua, e generosamente accompagnarci come guide. Certo non ci sono state fornite informazioni sistematiche e schematiche, così come accaduto nelle visite analoghe in Olanda, Svezia, o Svizzera, e non siamo stati in gradi di formarci prontamente quell’impressione generale in gradi di ricostruire la miriade di spunti del viaggio. Ma credo che i materiali raccolti, riesaminati, ci daranno certamente un quadro complessivo.

da: Town and Country Planning, dicembre 1949 – Titolo originale: Italian journey – Traduzione di Fabrizio Bottini

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